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Da Noto a Ragusa tra arte e sapori

In questa puntata la Torre del Gusto percorre la Sicilia Orientale per giungere a Noto, la Capitale del Barocco. Distante  pochi chilometri dalla Riserva di Vendicari, la cittadina di Noto è uno dei posti da non perdere nel vostro tour della Sicilia orientale!

Noto vi colpirà per i suoi monumenti e i palazzi storici,  per l’armonia delle forme,  con una architettura urbanistica che rasenta quasi la finzione! Non a caso è stata definita “La Capitale del Barocco” e il suo centro storico è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2002.

Seguiremo due itinerari: uno artistico e l’ altro più propriamente gastronomico. Giunti nella località ciò che traspare è la cortesia nell’ accoglienza. Troviamo alloggio presso il B&B Federica.  Una simpatica struttura ricettiva incuneata in una delle traverse storiche del centro storico. Dopo una colazione abbondante iniziamo il nostro tour consapevoli cheSono tante le attrazioni che offre questa cittadina, noi ve ne indichiamo cinque, quelle che assolutamente non potete perdere!

Non sarà l’attrazione principale della città ma vogliamo indicarla per prima. Il centro storico di Noto è raggiungibile da diverse vie ma accedervi dalla Porta Reale è il modo più giusto per iniziare la vostra visita nella Capitale del Barocco! La porta reale è un impattante arco di trionfo risalente all’800, progettato e costruito in occasione della visita del Re delle Due Sicilie, Ferdinando II. Attraversandolo, davanti a voi ecco l’asse principale che attraversa l’intero centro storico: Corso Vittorio Emanuele. BENVENUTI A NOTO!

Percorrendo Corso Vittorio Emanuele, a circa 100 metri di distanza, trovate la Chiesa di Santa Chiara, una architettura barocca di altissimo pregio.

Progettata dall’architetto siracusano Rosario Gagliardi nel 1730, fu completata nel 1758 ed annessa al all’ex convento delle Suore Benedettine, oggi museo civico di Noto. L’originario portale d’ingresso di questa chiesa si trovava proprio in Corso Vittorio Emanuele e successivamente fu murato dopo un lavoro di sbancamento del terreno effettuato nel corso dell’800 che lo rese di fatto impraticabile. L’interno della chiesa, con numerose decorazioni, putti e stucchi, è considerato uno dei più importanti dell’intera Sicilia per lo stile architettonico barocco. Da non perdere poi il panorama dalla terrazza di questo edificio! Con un piccolissimo contribuito, potete visitare l’ex convento delle Clarisse con la sua meravigliosa terrazza panoramica! Meraviglioso al tramonto… Indescrivibile di Notte!

E’ proprio in questo storico corso che troviamo Caffè Sicilia, fondato nel lontano 1892 è portabandiera della pasticceria e gelateria siciliana di qualità. Incastonato nel centro storico di Noto, Caffè Sicilia è una sosta obbligata non solo per i tanti turisti in visita da queste parti ma soprattutto per gli appassionati che qui sanno di poter trovare, grazie al maestro pasticcere Corrado Assenza, perfette interpretazioni di grandi classici. Granita di mandorle, limoni, gelsi e tanti altri gusti, ma anche cannoli, cassate, biancomangiare di mandorla e faccioni di Noto, lavorati artigianalmente. Ci sono poi i gelati ai gusti classici, imperdibile il cedro, e altri innovativi, da provare quello al basilico per un’esplosione di freschezza. Non mancano i dolci per celiaci.

La Cattedrale Di San Nicolò è il principale centro di culto e storicamente il più importante della città di Noto. Un gioiello barocco del 700 soggetto nel corso dei secoli a numerosi rifacimenti e ristrutturazioni, fino ad arrivare all’attuale struttura con la costruzione della Cupola nel XIX secolo ad opera di Cassone. Rimarrete sicuramente stupiti dalla bellezza e l’imponenza di questa cattedrale, che sembra dominare l’intero centro storico di Noto!

Il Palazzo dei principi di Nicolaci, riportato recentemente agli antichi splendori, è una struttura che rappresenta nella sua interezza la ricchezza artistica, l’opulenza del centro storico Netino!

Imboccando Via Nicolaci ( una perpendicolare a Corso Vittorio Emanuele) è subito riconoscibile: una facciata caratterizzata da un portale imponente e due grandi colonne iconiche, sormontate da una balconata opulenta sorretta da mensoloni in pietra scolpita raffigurante figure grottesche…
Una delle più alte rappresentazioni dello stile Barocco nel mondo! Da visitare anche gli interni di questa residenza nobiliare,  completamente restaurati e restituiti alla comunità. Ma il modo migliore di apprezzare il centro di Noto è perdersi fra le piccole vie barocche e ammirare la struttura architettonica di questa città che sembra uscita da un set cinematografico. Sono tantissime le attrazioni che Noto vi offre, noi ve ne abbiamo indicato solo alcune! Palazzo Ducezio, la Chiesa del S.s. Salvatore, Villa D’Ercole il Teatro Vittorio Emanuele… Non avete che l’imbarazzo della scelta! Seguite il nostro consiglio… Perdetevi e trovatele per caso.. E’ modo migliore per SCOPRIRE e VIVERE la belleza di Noto!

Continuiamo il nostro giro verso Modica, una delle città più pittoresche della provincia di Ragusa e a dire il vero un po’ della Sicilia in generale. Tante sono le bellezze architettoniche da vedere a Modica che da alcuni anni l’UNESCO ha inserito Modica nella lista dei beni tutelati come Patrimonio dell’Umanità. a città sorge su di un esteso altopiano a 15 km di distanza da Ragusa ed un tempo era attraversata da ben due fiumi. Tra il 1700 ed il 1800 a Modica erano presenti ben 17 ponti che permettevano l’attraversamento dei torrenti, fatto che la fece assomigliare a Venezia. Inoltre lungo le sponde dei fiumi erano presenti vari mulini che col tempo vennero sostituiti da quelli industriali, mentre le acque vennero incanalate per rifornire la rete idrica cittadina.

Modica è un delle città più pittoresche della provincia di Ragusa e a dire il vero un po’ della Sicilia in generale. Tante sono le bellezze architettoniche da vedere a Modica che da alcuni anni l’UNESCO ha inserito Modica nella lista dei beni tutelati come Patrimonio dell’Umanità.

La città sorge su di un esteso altopiano a 15 km di distanza da Ragusa ed un tempo era attraversata da ben due fiumi. Tra il 1700 ed il 1800 a Modica erano presenti ben 17 ponti che permettevano l’attraversamento dei torrenti, fatto che la fece assomigliare a Venezia. Inoltre lungo le sponde dei fiumi erano presenti vari mulini che col tempo vennero sostituiti da quelli industriali, mentre le acque vennero incanalate per rifornire la rete idrica cittadina.

Il nucleo più antico di Modica ruota tutto intorno ai ruderi dell’antico castello, dove un groviglio di viuzze conduce fino al punto più alto della città.

Affianco all’architettura prettamente medievale si possono ammirare splendidi edifici, per lo più sacri, di squisito gusto barocco e suggestivi palazzi nobiliari, segno dell’antica ricchezza di Modica.
Inoltre addentrandosi nella parte più vecchia della città si possono notare le case addossate le une alle altre e spesso ricavate in parte sfruttando le cavità naturali della roccia.

Queste grotte furono abitate fin dall’epoca preistorica ed oggi numerose sono state letteralmente inglobate nelle costruzioni più recenti.

Modica è prettamente di stampo barocco, infatti delle architetture precedenti rimane ben poco, se non l’impianto medievale del centro più antico.

Tra gli edifici che mantengono ancora caratteristiche non barocche si può menzionare la Chiesa del Carmine, che presenta un portale gotico, le rovine della Chiesa del Sacramento e la Chiesa rupestre di San Niccolò Inferiore, addirittura risalente al XII secolo.

Una delle chiese barocche più belle di Modica è la Chiesa di San Giorgio, impreziosita da un’imponente scalinata di ben 250 scalini che conducono fino alla magnifica facciata.

All’interno la chiesa è suddivisa in 5 navate e custodisce preziose opere d’arte quali dipinti, stucchi ed il “tesoro” della chiesa, ovvero pezzi unici realizzati in materiali preziosi come l’argento.
Un’altra chiesa degna di nota è la Chiesa del Carmine con annesso convento. La struttura risale al 1500 e di quel periodo rimane ancora integro il portale gotico. L’interno, ad un’unica navata, presenta alcuni preziosi dipinti ed uno splendido altare in legno scolpito con magnifici stucchi.

Proseguendo lungo il corso si giunge nella parte bassa di Modica dove si possono visitare due chiese antiche, ma rifatte nel corso dei secoli, in stile barocco, si tratta della Chiesa di Santa Maria di Betlemme e la Chiesa di San Pietro.

Non distante da queste due chiese si trova l’ex convento dei Mercedari, oggi adibito a sede di due musei. All’interno si può visitare il Museo Civico, dove sono raccolte testimonianze addirittura del Paleolitico, ritrovate nelle grotte nei pressi di Modica, ed il Museo delle Arti e Tradizioni popolari, un autentico documento reale di vita e delle attività del passato di Modica.

Tutto il centro di Modica è ricco di bellezze architettoniche e basta passeggiare senza troppa fretta per gustarsele tutto fino in fondo.

Prendendo una stradina in salita ci si può inoltrare fino nella parte più alta di Modica, dove poter vedere la Cattedrale di San Giovanni, preceduta da un’elegante scalinata, il Palazzo Tommasi-Rossi, lo splendido portico del Palazzo Zacco-Pirrera e tanti altri edifici dalla facciate sontuose.
Da vedere a Modica è la visita al Museo Campailla, intitolato al medico-filosofo modicano che riuscì a curare tante persone dalla sifilide grazie ad inalazioni di mercurio tramite delle apposite botti oggi esposte al museo.

Molto suggestiva è anche una visita alla casa natale di Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura. All’interno la casa presenta ancora il mobilio originale e la stessa disposizione delle cose lasciata dallo scrittore.

Ma Modica è famosa anche per il cioccolato. Una tradizione, quella del cioccolato che si tramanda dal XVI secolo e che affonda le sue radici in Messico dove 3.500 anni fa i Maya e gli Aztechi utilizzavano il cioccolato come cibo degli dei. Il cioccolato di Modica è ottenuto dalla lavorazione a freddo di ingredienti altamente selezionati, escludendo pertanto la fase del concaggio. La massa di cacao viene lavorata assieme a zucchero di canna grezzo, senza aggiunta di alcun emulsionante o additivo. Grazie a questo lento e lungo processo a freddo i cristalli di zucchero rimangono integri all’interno della massa, donando al prodotto finale una consistenza granulosa e grezza.

Una volta giunti  a Ragusa è impossibile non visitare Ragusa Ibla, il fulcro della città di Ragusa, il suo quartiere più affascinante grazie ai numerosi palazzi e chiese che vi si trovano.

Ragusa Ibla si estende su una piccola collina e dopo il terremoto del 1693 fu interamente ricostruita in stile barocco. Per iniziare una piacevole passeggiata alla scoperta di Ibla è bene partire da Piazza Pola.  Questa piazza è la principale del quartiere ed è qui che si trovano numerosi bar, locali ed uffici comunali.

È partendo da questa piazza che potremmo andare alla scoperta delle numerose ricchezze di Ibla che si susseguono una dopo l’altra affascinando i numerosi turisti. Lasciandoci la piazza alle spalle, e percorrendo via Orfanotrofio, è possibile ammirare tutta una serie di palazzi nobiliari sia in stile barocco che rinascimentale. Dopo solo pochi passi si trovano i resti della Chiesa di Sant’Agostino un’antica chiesa della quale resta un bellissimo portale in stile gotico, essenziale ed affascinante.

Dopo la chiesa si trova il Palazzo Di Quattro risalente al ‘700. Questo palazzo fu costruito per volere del Duca Arezzi di San Filippo e solo successivamente divenne proprietà della famiglia Di Quattro.
Al piano terra si trova, oggi, una bottega di un antiquario. Proseguendo sulla stessa strada c’è la Chiesa di Santa Teresa ed il relativo collegio. Continuando la passeggiata per Ragusa Ibla, e prendendo via delle Suore, si arriva in una piccola piazza, Piazza Chiaramonte dove si erge la Chiesa di San Francesco dell’Immacolata.

opo la Chiesa di San Francesco ci troviamo a percorrere la strettissima via Chiaramonte che ci conduce al retro del Palazzo Battaglia, il primo realizzato dopo il grande terremoto. La caratteristica principale di questo palazzo sta nel fatto di avere due facciate principali, la prima visibile da via Chiaramonte e la seconda percorrendo una piccola via che divide il palazzo dalla Chiesa dell’Annunziata.

La facciata rivolta verso la Chiesa dell’Annunziata si presenta con due diversi livelli separati da una fascia in pietra.

 Al pianterreno si trova un affascinante portale con ai lati due grandi finestre nello stesso stile. Al piano superiore, quello nobile, si trovano tre balconi e su quello centrale si trova un grande scudo araldico con gli stemmi delle famiglie Battaglia e Giampiccolo. La facciata che dà su via Chiaramonte è successiva e presenta un grande balcone ed un bellissimo portone d’ingresso. Al centro tra il balcone e il portone si trova una piccola finestra ovale.

Lasciando con lo sguardo il magnifico palazzo subito ci ritroviamo di fronte la Chiesa dell’Annunziata con accanto un piccolo palazzo settecentesco che dà l’impressione di appartenere alla chiesa stessa, è il Palazzo Arezzi. Ritornando in via Orfanotrofio continua la salita e ci si trova a Largo Camerina da dove è possibile prendere via Cabrera e giungere in Piazza Duomo, il cuore del barocco di Ibla. il cuore anche della cucina grazie al Ristorante del Duomo mette al bando semplicità e minimalismi per creare piatti compositi e seducenti, barocchi, ma sapientemente ancorati alla tradizione gastronomica isolana, di cui Ciccio Sultano è ormai lo chef di riferimento!

Questa piazza ha una forma irregolare ed è circondata da chiese e palazzi.

La chiesa più bella è senza dubbio quella di San Giorgio che domina l’intera pizza circondata da palazzi quali Palazzo Arezzi, caratterizzato da uno splendido arco sotto il quale passa la strada che conduce all’ex Distretto Militare. La bellezza di questa piazza è indescrivibile ed è oggi sede di numerose manifestazioni civili e religiose. Prima di abbandonare la piazza, nella parte bassa, si trova una deliziosa fontana tra i Palazzi Arezzi e Vaninata costruiti tra la fine dell’800 e l’inizio del 900.

Percorrendo la vicina via del Convento troviamo una piccola scalinata che ci porta verso la parte alta di Ibla. Una volta giunti all’estremità delle scale è possibile riconoscere i resti di un piccola piazzetta con belvedere e da qui si può percorrere via Torrenuova, e ammirare il Palazzo Capodicasa con 8 balconi sovrastati da sculture classiche, o prendere la grande scalinata che conduce alla Chiesa di Santa Maria del Gesù.

Sia la Chiesa che il connesso convento furono costruiti nel 1636 circa per volere dei frati minori.

Visto il posto scelto, la costruzione di questa chiesa fu assai complessa e di conseguenza lenta. Il convento presenta quattro livelli ognuno dei quali ospitava dei locali differenti. Al primo piano si trovavano dei magazzini in cui venivano conservati i raccolti del vicino terreno, al secondo una grande cisterna e altri magazzini, al terzo il refettorio e la cucina e al quarto le celle dei frati. Sulla parte nord del convento si trova la chiesa che nel 1963 fu molto danneggiata dal terremoto. Su via Torrenuova si trova anche la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Nei pressi di questa chiesa si trova Porta Walter che, oggi, è l’unico accesso per Ibla medievale.

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OMAGGIO A SAN SEBASTIANO

San Sebastiano nacque a Narbona, in Francia. Fu un legionario romano sotto Diocleziano e Massimiliano, dalla nascosta fede cristiana. Appena scoperta quest’ultima, fu condannato prima alla trafizione mediante frecce. Sopravvisse miracolosamente al supplizio, tramite intercessione divina. In seguito, fu condannato all’annegamento, stavolta mortale, poi buttato in una fossa comune.

La festività di San Sebastiano è celebrata dal mondo occidentale il 20 gennaio e dal mondo orientale il 18 dicembre..

Il culto del Santo sembra sia stato introdotto nell’anno 1063, ma la devozione a San Sebastiano si estese tra 1625 e il 1630 quando s’invocò la sua intercessione per fermare la terribile epidemia di peste che affliggeva tutta la Sicilia e che aveva mietuto tantissime vittime.

Senza entrare nei dettagli in molti paesi siciliani il santo è venerato e solenni festeggiamenti sono dedicati in suo onore. Vogliamo ripercorre attraverso delle riprese alcuni emozionanti momenti in tre paesi siciliani dove il culto del Santo è particolarmente sentito, a Palazzolo Acreide, a Mistretta ed a Acireale.

Nel mese di agosto, sono molti paesi dell’entroterra siciliano che si preparano ad eventi e manifestazioni, religiose e non, difendendole strenuamente dal difficile periodo che stiamo vivendo e che si confermano sempre un continuo spettacolo per i paesani stessi e per i turisti, sia italiani che stranieri.
A Palazzolo Acreide, piccolo comune in provincia di Siracusa di circa 9.000 abitanti, caratterizzata dallo stile barocco, situato nei Monti Iblei, dal 2002, assieme alla Val di Noto, Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

si prepara il 10 agosto i festeggiamenti per riecheggiare il culto di san Sebastiano Martire, scelto dalla chiesa come “depulsor pestis” (allontanatore di peste) e difensore della fede; un culto che si narra anteriore al 1414, anno in cui un miracoloso Simulacro del Santo approdò a Melilli. Da quel momento in poi si diffuse in modo incredibile nell’area Iblea e successivamente in tutta la Sicilia.

A Palazzolo Acreide la devozione per questo Santoa cui è dedicata la Cappella presso l’antica chiesa dell’Annunziata, è talmente sentita che la festa, fissata per la ricorrenza del 20 gennaio, viene replicata il 10 agosto in sostituzione di quella della Madonna Odigitria, con una cornice di pubblico e un folklore senza eguali. Da un po’ di tempo a questa parte, alle secolari tradizioni che contraddistinguono la festa si sono aggiunti nuovi riti e nuove iniziative che incontrano sempre più il favore del pubblico. La festa dura dieci giorni, tutti da godere e ricchi di momenti toccanti e spettacolari.

Non di meno la festa La Festa di San Sebastiano di Mistretta, sui Monti Nebrodi, la “Festa ranni” o la “Festa di vutu”  che si svolge il 18 agosto. La pesante vara di legno massiccio e oro su cui è posta la statua del Santo è portata a piedi scalzi da 60 cittadini che hanno il posto assegnato, spesso tramandato dai padri, ed è preceduta nella sua corsa per tutto il perimetro della città, da una varetta che contiene le reliquie di San Sebastiano ed è piena di ceri, simbolo di grazie ricevute, sostenuta da giovani. Tutto il popolo corre dietro al Santo anche per le viuzze strette del centro storico dove il fercolo del Santo passa a stento e la città si riempie di gente, gli emigranti di ritorno con la famiglia e la gente dei paesi vicini attirati dallo sfarzo e dalla grandiosità della festa.

I mistrettesi che risiedono all’estero tornano quasi tutti, specialmente se sono purtanti“, cioè deputati al gravoso ma atteso compito di “stari sutta ‘a vara“, di portare in spalla la Vara. La mattina si svolge il “giro dei Miracoli“. Il Comitato si avvia insieme alla banda musicale, con in testa lo stendardo processionale che viene tenuto ben teso da due bambini che stringono i nastri laterali, compie un giro che vede un itinerario sempre diverso, secondo l’anticipata prenotazione dei fedeli che offrono gli ex-voto e la più agevole successione per il ritiro degli stessi. In genere questi sono costituiti da oggetti d’oro e da ceri, le singolari cere di grandi dimensioni appositamente prodotte a Mistretta; si forma così una processione che si reca ufficialmente in chiesa per la consegna al santo delle promesse. Il momento di attesa pomeridiano è impegnato dai giochi; fino a mezzo secolo fa era d’obbligo “la ntinna a palu“, il “palo della cuccagna” su cui occorreva salire per afferrare i premi in natura. Oggi permane la consuetudine di effettuare, davanti alla chiesa, il gioco di pignati“, che consiste nel rompere – da fermi, ad occhi bendati e con una lunga pertica – gli orcioli appesi ad un filo.

Iniziata la processione che porterà in giro per le vie del paese, la preziosa e grande macchina processionale (la Vara) trasportata a spalla che spesso percorrerà tratti di corsa, vengono sparati dei mortaretti.  La procesione fa il giro del paese per tutto il pomeriggio percorrendo tratti a gran corsa fino a giungere in serata nuovamente nella Chiesa da dove era partita. Tutta la vara è illuminata da centinaia di lucine, la varetta è illuminata dai ceri, il corso principale è illuminato a festa con mille luci: il gioco di luci che si viene a creare è suggestivo. La festa si conclude con i fuochi d’artificio e con uno spettacolo in piazza, dopo che tra la commozione generale il Santo rientra in chiesa mentre la banda comunale intona le tradizionali marce della festa. I festeggiamenti hanno luogo anche il 20 gennaio.

Ad Acireale, in provincia di Catania la spettacolarità della festa acquisisce un fascino travolgente

La festa più amata dagli acesi si svolge il 20 di gennaio di ogni anno in onore di San Sebastiano. Pur essendo uno dei molti compatroni deputati insieme alla patrona principale Santa Venera ad impetrare la protezione divina sulla città, i festeg-giamenti tributati al Santo, espressione di una devozione popolare lunga oltre 450 anni ancora viva e sentita, sono indub-biamente l’evento religioso cittadino più atteso.

Le prime luci mattutine non hanno ancora pienamente illuminato la splendida facciata settecentesca della grande basilica, illustre esempio di barocco siciliano, che la piazza antistante si popola di divoti (devoti) ansiosi di correre verso la cappella dove il Santo è rimasto custodito e celato alla loro vista per tutto l’anno.

Momenti strettamente religiosi celebrati dal decano della Basilica hanno interessato i fedeli lungo le settimane precedenti la festa, mentre le Reliquie del Santo sono state accompagnate in forme rigorosamente religiose nei luoghi di dolore e di memoria della città. Messe, funzioni, meditazioni rafforzano una catechesi che volutamente spoglia di sovrastrutture folcloristiche fa comprendere ad attenti fedeli e motivati divoti il profondo senso religioso dell’evento.

Il lungo anno di privazione, offerto come pratica di espiazione penitenziale da una folla di fedeli ormai impazienti di rivedere il loro beniamino si dissolve in un urlo di incontenibile gioia all’apertura della cappella e alla svelata della statua del Santo raffigurato nelle sembianze di un biondo riccioluto fanciullo in atto di ricevere il martirio delle frecce.

‘U rizzareddu (il ricciolino) come affettuosamente viene chiamato il Santo, attorniato dai mille luccichii del settecentesco fercolo e con a lato i due paffuti angioletti che con lieve sforzo sorreggono i bracci argentei dove sono custodite le Reliquie, viene a forza posto con movimenti lenti resi quasi impossibili dalla calca, sopra il pesantissimo baiardo: un affusto di legno munito di quattro ruote retrattili ma fisse. Al grido di: cu tuttu ‘u cori: viva Sammastianu! (con tutto il cuore: viva San Sebastiano!) una quarantina di divoti si tramandano di padre in figlio l’ambito compito di trasportare il baiardo sollevandolo a viva forza ad ogni curva, sovente anche di corsa, lungo un percorso che si snoda per tutta la città.

Attorno a loro altri divoti: donne ed uomini, giovani e vecchi, talvolta anche bambini in braccio ai loro genitori, tutti, come vuole la tradizione, senza scarpe, con i piedi coperti da semplici calze, vestiti della tradizionale divisa con la testa coperta da un fazzoletto, accompagnano insieme a una moltitudine di semplici fedeli il Santo per tutto il giorno.

Dopo la spettacolare manovra di uscita dalla Basilica, altre vertiginose corse riempiono la giornata in mezzo a continui scampanii e fuochi d’artificio. A notte inoltrata e dopo aver traversato vie e piazze antiche nelle quali una tradizione lunga secoli di storia ha creato momenti di toccante religiosità, la processione si conclude con un suggestivo rientro in basilica.

È un popolo di divoti stanchi ma orgogliosi di aver offerto per tutto il giorno fatica e pericoli al loro Santo, perpetuando in tal modo una tradizione ancora genuina nella quale il folclore ammanta ma non cancella una religiosità semplice ed istintiva, ad accompagnare compatti sino alla cappella il loro beniamino preparandosi a festeggiarlo di nuovo, stavolta all’interno della Basilica, otto giorni dopo per poi affrontare, aspettando pazientemente la successiva festa, un altro lungo anno di attesa e privazione.

Il culto di San Sebastiano, la cui introduzione in Sicilia sembra sia avvenuta verso il 1063 da parte dei Lombardi al seguito di Ruggero, ha una vasta diffusione nell’isola anche perchè si riteneva che l’intercessione del Santo scampato al martirio delle frecce proteggesse dalla peste rappresentata nell’iconografia medievale da dardi scagliati da Dio contro i peccatori.

Ad Acireale è un decreto di approvazione dei festeggiamenti emesso l’11 settembre del 1571 dal vescovo Faraone, a documentarci inoppugnabilmente l’esistenza di una festa già viva e vitale la cui nascita è possibile ascrivere ai primi decenni del secolo e che progressivamente trova intensità in un culto che si rafforza ad ogni episodio della lunga sequela di epidemie di peste.

Lungo tutto il Cinquecento, festa e processione permangono in una dimensione contadina e spontanea per poi nel Seicento, abbandonata la vecchia chiesetta oggi dedicata a Sant’Antonio per trasferirsi in una nuova, capiente e più centrale chiesa edificata nell’attuale collocazione, assumere una dimensione più urbana ed articolata.

Sono comunque Controriforma, Riforma e Barocco che si occupano di codificare festa e processione imprimendo un rigido ordine gerarchico per “corpi” e “ordini” sociali caratteristico della mentalità del Seicento.Sono così, rigide gerarchie, ordini e precedenze nei riti e nelle processioni a costruire la festa seicentesca non mancando sovente di accendere furibonde “guerre di Santi” tra le confraternite di San Sebastiano cui si opponevano, talvolta anche fisicamente, i confrati concorrenti di San Pietro e Paolo. Scontri che, in effetti, sotto le poco consistenti motivazioni di precedenze e formali preminenze, nascondevano lotte politiche e motivazioni sociali ed economiche ben più profonde e significative.

Tra il Sei ed il Settecento, il radicamento del culto di San Sebastiano negli strati popolani della città, permise la persistenza della festa a livello religioso e sociale, mentre sfumavano sperdendosi progressivamente i festeggiamenti pubblici dedicati ai Santi Pietro e Paolo.

Tra la seconda metà del Seicento e lungo tutto il Sette-Ottocento è comunque Santa Venera, attorno alla cui festa ruotavano interessi economici rilevanti per la concomitante fiera franca che permetteva il commercio della seta in regime di esenzione di tasse ed imposte, a prendere il sopravvento e diventare patrona principale della città e Santa di riferimento per una ricca borghesia che nel frattempo si nobilitava comprando il blasone. Tuttavia, alla “Santa dei nobili” appunto Santa Venera, si affiancava tenacemente un San Sebastiano il cui culto trovava radicamento e veniva tramandato in un ampio strato di fedeli di prevalente origine popolana.

Ed è tale saldo e profondo radicamento di così lunga durata, in un quadro cittadino di generale affievolimento delle altre feste – Santa Venera compresa -, che assicura ancora oggi, nel terzo millennio, la permanenza della festa di San Sebastiano in una forma che pur conservando attentamente la tradizione non resta tuttavia totalmente impermeabile ai mutamenti.

Attorno al culto ed ai festeggiamenti di San Sebastiano sono nate e prosperate espressioni architettoniche, artistiche, sociali e culturali di notevole rilievo. Basti pensare alla imponente Basilica splendido esempio di Barocco siciliano, edificata ai primi del Seicento e ricostruita dopo il terremoto del 1693 con un prospetto dove otto statue di santi, dieci testine di angioli, trenta mascheroni apotropaici fregi e motivi floreali unitamente ad un coro sereno e gioioso di quattordici puttini che reggono ghirlande di frutta e di fiori, compongono uno straordinario merletto di pietra.

All’interno della Basilica il ciclo pittorico di Paolo Vasta, originariamente pensato per far conoscere con l’immediatezza della raffigurazione a fedeli spesso incapaci di leggere: la vita, i miracoli, le opere del Santo, si mostra didascalico, quasi teatrale, stimolando e coinvolgendo osservatori trascinati ancor oggi nella dimensione di raffigurazioni che si fanno realtà.

Gli innumerevoli preziosi paramenti sacri, pregevoli esempi di un artigianato che sulla seta e sui damaschi sapeva proiettare estro ed originalità, insieme con una miriade di oggetti sacri di materiale umile come il legno, il ferro, il marmo ma anche di prezioso oro ed argento fanno da sfavillante cornice ad un settecentesco fercolo rivestito di fine argento cesellato all’interno del quale, sotto le sembianze di un etereo fanciullo ancora oggi fa bella mostra la statua del Santo che recenti saggi attraverso i rifacimenti del tempo hanno identificato come l’originaria del Cinquecento.

Una basilica, luogo di preghiera, di culto, ma anche sede di confraternite ed associazioni laiche, purtroppo oggi quasi del tutto scomparse, che con la socialità, con la solidarietà, col mutuo soccorso univano e davano rassicurante protezione a numerosi fedeli ai quali assicuravano anche l’estrema dimora vicino al venerato Santo.

Una festa ed un culto profondamente radicate, fortificati da secoli di tradizione, che ancora oggi si mantengono saldi e non corrono rischi imminenti di sparizione. Tuttavia in mezzo ad un “consumismo” ed ad una “globalizzazione” che fagocitano velocemente e con estrema voracità valori ed espressioni locali, il rischio di svuotare di contenuti un evento pur sempre religioso facendolo scadere al ruolo di manifestazione vuotamente mediatica e folcloristica esiste ed è concreto.

Per evitare tali rischi è indispensabile rivisitare costantemente contenuti ed espressioni dell’evento mantenendoli entro i caratteri originari adoperando tuttavia per la loro diffusione aggiornati linguaggi e modalità comunicative in modo da permettere al culto del Santo e alla sua festa di proiettarsi ancora vivi e sentiti nel terzo millennio.

 

La gustosa estate palermitana

 

https://www.youtube.com/watch?v=j9bWeP1apEs&feature=youtu.be

Parlare di  estate palermitana significa entrare nel vivo della tradizione gastronomica di questa città e il momento migliore è certamente luglio, il mese cioè in cui tutti i palermitani devoti festeggiano la loro patrona Santa Rosalia, un’importante festa popolare nota come il “festino” poiché esso è considerato “a granni festa”, la grande festa, si svolge per cinque giorni, dal 10 al 15 luglio, e rappresenta il momento più alto dell’espressione popolare delle tradizioni e del folklore palermitano.

Lo spazio urbano, nei secoli passati, si trasformava in una grande ribalta ove si succedevano in una mescolanza gioiosa, cerimonie pubbliche sia religiose sia civili e gare di decorazioni e d’illuminazione tra i vari quartieri.

“A Santuzza miraculusa” è riferita a quell’anno maledetto, il 1624, in cui la morte nera falciava la popolazione di Palermo. Nessun rimedio umano era giovato ad arrestare il morbo, e le quattro Sante cui in quel periodo era ufficialmente affidata la protezione della città (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa) non riuscivano a contenere il malefico male, né tantomeno i Santi Sebastiano e Rocco, ritenuti specialisti in guarigioni da peste bubbonica.

La leggenda vuole che di Rosalia non si conoscesse nulla, tranne la sua origine, poiché essa visse in onore di santità, sfuggendo alla vita agiata della corte di Re Ruggero. Figlia di Sinibaldo di Quisquina e morta in data incerta in una grotta del Montepellegrino, successivamente trasformata in santuario, apparve ad un cacciatore, tale Vincenzo Bonello, diversi secoli dopo, gli indicò il luogo in cui giacevano le sue spoglie e gli disse di riferire all’Arcivescovo di Palermo di mettere insieme le sacre reliquie in un sacco e di portarle in processione per le strade della città.

’Arcivescovo Giannettino Doria, il 15 luglio del 1624, insieme a tutto il clero e con la partecipazione del Senato e di alcuni cittadini eletti, portò le reliquie in processione, e avvenne che, al loro passaggio, il male regredisse. Palermo in breve fu liberata dalla peste e, in segno di riconoscenza per tanto beneficio, il Senato palermitano si votò alla nuova Santa e decretò che in suo onore, ogni anno, i giorni della liberazione fossero ricordati come il trionfo della Santa, nel frattempo divenuta protettrice della città.

Daallora fino ad oggi il Festino si ripitepe interrottamente ogni anno sempre magnifico e sempre diverso.

In questi giorni per le vie più popolari di Palermo, ed in particolar modo al Foro Italico, luogo dove si conclude il festino con la sfilata del carro della Patrona, i vari odori del cibo si mischiano nell’aria, nelle numerose bancarelle allestite per la festa, infatti, si trovano le specialità della nostra Palermo.

Dalla bancarella del “siminzaro” (venditore di semi di zucca, mandorle, nocciole, lupini….) decorata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine di Santa Rosalia al centro, alla bancarella del “turrunaru” (venditore di torrone) che prepara a vista la cubaita, tagliandola a pezzi con un grosso coltello e che espone ad arte i vari tipi di torrone, fra cui il tradizionale “gelato di campagna“. Passando per le bancarelle del “panellaro“, del venditore del “pane ca’ meusa“, dal tavolo del “purparu” dove oltre al polpo si possono consumare anche cozze e ricci; e poi lo “sfincionaro“, il venditore di fichi d’india e quello che vende pannocchie bollite (“pullanca“). Insomma si può trovare di tutto, non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma per il palermitano doc non è Festino se gli vengono a mancare “u’ muluni” e i “babbaluci.

I “babbaluci” non sono altro che piccole lumache terrestri con il guscio bianco a volte striato di un colore bruno chiaro.

Si raccolgono sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi dove si abbarbicano a grappoli.
Il periodo in cui sono più buone da mangiare è quello che va dal 13 giugno fino al mese di luglio.

L’origine della parola babbaluci deriva probabilmente dall’arabo “babush” termine che indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano si chiamano “babusce”. Alcuni invece ne indicano la provenienza dal greco “boubalàkion”, che significa bufalo, a cui veniva paragonato il “babbalucio” per via delle corna.
Del loro consumo ci arrivano notizie che risalgono agli antichi Greci e Romani che già fin dal 49 a.C. inventarono delle tecniche per allevarle. Utilizzate anche dalla medicina popolare siciliana, venivano usate per guarire casi di esaurimento nervoso, contro l’ eccessiva magrezza e per curare i mali del fegato, ma anche per le congiuntiviti dell’occhio e per le infezioni della pelle, dove venivano applicate dopo essere state schiacciate e mischiate con del lievito, accompagnando la medicazione con apposite litanie, “a razioni“.

Insomma dei “babbaluci” si è sempre fatto un largo consumo e utilizzo, ed è  forse a causa della loro ostinazione determinata, pensate che riesce a percorrere quattro metri al minuto, che è nata persino una canzone popolare dedicata a questi gasteropodi: “Viri chi danno ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttanu i balati, si unn’era lestu a dàrici na vuci, viri chi dannu ca fannu i babbaluci”…

Dal punto di vista organolettico, i babbaluci hanno carni tenere, con pochi grassi e con proteine simili a quelle del pesce, a renderli poco leggeri è l’aglio soffritto nell’olio d’oliva, “l’agghia ‘ngranciata”

Caratteristico poi è il modo in cui si mangiano queste “ghiottonerie cornute”: alcuni utilizzano gli stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco, ma il vero palermitano ama mangiarle “cu scrusciu” (il rumore del mollusco risucchiato), infatti per agevolare l’uscita veloce della lumaca dal guscio, si pratica un piccolo foro, con il dente canino, sulla chiocciola nella parte opposta all’apertura del nicchio testaceo, in modo da creare un canale d’aria da cui il mollusco sarà risucchiato. In fondo il vero piacere di mangiare i babbaluci è questo, e non saziano mai, proprio come recita l’antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari nun ponnu mai saziari”.

Nel periodo in cui si svolge a Palermo il tradizionale Festino, vengono consumati quintali di “babbaluci”, e grosse quantità di “muluna”, per quello che viene definito lo “schiticchio”.

Ma, come dessert o come passatempo nell’attesa di assistere ai fantasmagorici giochi d’artificio, si indugia a sgranocchiare “calia e simenza”, o si gusta il tradizionalegelato di campagna” o “giardinetto“.
In realtà, dal punto di vista organolettico, assomiglia molto al gelato ma non lo è poiché il suo ingrediente principale è lo zucchero, che però ha la caratteristica di sciogliersi facilmente in bocca.

Come il gelato, appunto. Da qui, il nome.

Sorta di torrone tenero d’origine araba, oltre allo zucchero che ne è l’ingrediente principale in assoluto e che veniva importato, ricavato dalla cannamele, altri ingredienti “essenziali” sono: il pistacchio, largamente impiegato, oltre che per il gusto, per il suo verde scintillante che risalta autorevolmente fra gli altri due colori principali, il bianco e il rosso, ricavati da coloranti vegetali.

I tre colori riproducono il tricolore italiano.

Le mandorle, la cannella e la frutta candita, frutti peculiari della terra di Sicilia, vennero aggiunti a gratificazione della cultura magrebina.

Manipolato, come spesso accadeva per i dolciumi, all’interno dei monasteri, si diffuse nel 1860 per acclamare l’arrivo di Garibaldi ed esaltare l’avvenuta annessione all’Italia. I palermitani, con il tricolore, ne furono validi testimoni, e da allora il gelato di campagna è sempre presente in tutte le feste popolari.

E’ il pezzo forte di tutte le bancarelle dei “turrunara”. Ammicca dai ripiani tra le altre golosità e, ulteriore curiosità, può essere preparato in forma quadrata o a forma di mezzaluna; quest’ultima forma si fa risalire ad un simbolismo magico introdotto dalla cultura araba che venerava la natura ed in particolare la luna crescente.

Per i palermitani questo dolce è il simbolo magnificatore di un’occasione quale la festa, il suo consumo scandisce la ricorrenza di calendario. Le preparazioni più recenti, sfuggendo alle rigide tradizioni, propongono prodotti identici dal punto di vista calorico, ma molto più elaborati esteticamente. Cambiano perciò le forme, i colori, gli ingredienti di contorno.

Ma, nonostante il passare degli anni e le inevitabili “contaminazioni” (è successo anche al panettone), la tradizione resiste ad il gelato di campagna si colloca nel firmamento dei dolciumi come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.

Altro protagonista dell’ estate palermitana è poi il gelo di mellone.

l mellone, versione italianizzata del nome dialettale “muluni”, non è altro che  l’anguria o cocomero, frutto abbondantemente coltivato in Sicilia e che raggiunge la sua piena maturazione nel periodo estivo. Dolce e succosa, l’anguria, è un frutto dalle numerose proprietà e dal ridotto apporto calorico. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, il suo sapore dolce non deriva da un elevato contenuto di zuccheri, che anzi è una piccola percentuale, ma dalla presenza di sostanze aromatiche particolari. Questo, insieme alla ricchezza di vitamine A e B e di potassio, lo rendono adatto da consumare anche durante le diete ipocaloriche. Perciò non c’è niente di meglio in estate, quando si sente la necessità di un pò di freschezza o per reintegrare liquidi, che con le temperature torride dei mesi più caldi, inevitabilmente vengono espulsi. Del resto l’anguria ha come caratteristica quella di essere il primo frutto al mondo per contenuto d’acqua, pensate che la sua percentuale è pari a più del 95% .

A Palermo trovare chi vende le angurie è molto facile, addossati ai marciapiedi, disseminati in vari “punti strategici” della città, infatti, si possono vedere camion o moto ape con la sponda posteriore aperta da cui fanno bella mostra piramidi di angurie.

Il venditore di “muluna”  è detto “u mulunaru” riconoscitore esperto del frutto, che ne capisce la maturazione dando uno schiaffo alla corteccia e ascoltandone il rumore, ne garantisce la bontà al cliente.

Per il palermitano l’anguria è forse il frutto più amato, per il sapore dolce e per i suoi colori brillanti, ed è con gusto e soddisfazione che addenta la grossa e invitante mezzaluna, e poco importa se il succo gli bagna le mani e giù fino ai gomiti, o se quasi si lava la faccia, per il palermitano doc, questo è un rito a cui non può rinunciare… infondo è proprio vero che questo frutto ha la caratteristica di provvedere a “manciari, viviri e lavarisi a facci “

Ma tornando alla ricetta del “gelo di mellone”, c’è da dire innanzi tutto che è un dolce squisito ma non è un gelato, contrariamente a quanto può far pensare il suo nome, anche se ce lo ricorda per il suo aspetto, la sua dolcezza e la sensazione di freschezza che sa donare al palato.

C’è chi sostiene che le origini di questo dolce siano albanesi, portato dagli Arberesch che si stanziarono in Sicilia dove ancora oggi risiedono, mantenendo usi e costumi della loro terra natia. C’è invece chi è più propenso a credere che questa golosità risalga al tempo della dominazione araba in Sicilia, per gli aromi del cioccolato, dei pistacchi, del gelsomino, della cannella….

 

 

 

 

BIOLOGICO, I PRO E I CONTRO

Verena Seufert, autrice e ricercatrice dell’Institute for Resources, Environment and Sustainability (Ires)

di Placido Salamone

Giorno fa ho trovato interessante un articolo della nota giornalista  Marta  Musso dal titolo “Agricoltura delle meraviglie: luci ed ombre del cibo bio” Parliamo sempre di biologico pensando di fare una scelta di acquisto eticamente corretta e salutista. Pensiamo al bio come proposta alternativa più ecologica all’agricoltura convenzionale e anche per questo motivo è il settore alimentare in più rapida crescita sia nel Nord America che in Europa. Ma una disamina di questo modus operandi non sempre è fatta correttamente e quindi arriva il momento di parlare con cognizione di causa. Per fare ciò serve in team di veri esperti come appunto ricercatori della University of British Columbia che hanno indagato i vantaggi e svantaggi dell’agricoltura biologica per la salute e per l’ambiente.

Come ci spiega Verena Seufert, autrice e ricercatrice dell’Institute for Resources, Environment and Sustainability (Ires) e Navin Ramankutty. “Il biologico è spesso proposto come la soluzione ai problemi ambientali e alimentari, ma abbiamo scoperto che i costi e i benefici variano fortemente a seconda del contesto in cui ci si trova”.

Attraverso uno studio sistematico condotto su 17 criteri diversi tra cui la resa del raccolto, l’impatto sui cambiamenti climatici, il sostentamento degli agricoltori e la salute dei consumatori, Seufert è giunta alla conclusione che se da una parte l’agricoltura biologica promuove la biodiversità locale, un più alto valore nutrizionale dei prodotti e una maggiore redditività per gli agricoltori, ha tuttavia degli svantaggi, come prezzi ben più alti e bassi rendimenti rispetto all’agricoltura tradizionale.

Vi domanderete certamente cosa ha di innovativo questo studio di ricerca. Certamente quello di contestualizzare i pro e contro della coltivazione biologica. L’esempio viene fatto mettendo a confronto aree sviluppate con aree in via di sviluppo, partendo dall’ utilizzo di pesticidi sintetici e i benefici nutrizionali del biologico.

Navil Ramankutty – Professor in Global Food Security and Sustainability, Liu Institute for Global Issues and IRES

Come spiegano i due autori, in paesi sviluppati dove sono presenti leggi sui pesticidi molto rigorose e il regime alimentare è già ricco di micronutrienti, i benefici per la salute di scegliere prodotti organici potrebbero essere del tutto marginali. Paradossalmente, la situazione è differente nei paesi più poveri. “In un paese in via di sviluppo – spiega Ramankutty – dove l’uso dei pesticidi non viene controllato e le persone hanno carenze alimentari, riteniamo che i benefici per la salute del consumatore e dell’agricoltore possano essere molto più alti”.
Un altro importante criterio per misurare la sostenibilità dei sistemi agricoli è il rendimento di un raccolto. Finora, la maggior parte degli studi avevano messo a confronto i costi e i benefici delle aziende biologiche e di quelle convenzionali, senza però tener conto delle differenze nel rendimento di differenti colture e tecniche di coltivazione. In media, sottolineano i ricercatori, il rendimento di una coltivazione biologica è tra il 19 e il 25 percento inferiore a quello di una coltivazione convenzionale. Ma il gap può ridursi fino al 5-9 percento, o aumentare fino quasi al 40 percento, prendendo in considerazione prodotti diversi e differenti tecniche di rotazione delle colture. La morale, spiegano i due autori dello studio, è che il bio non è sempre meglio, e un’adozione indiscriminata di queste tecniche di coltivazione avrebbe gravi ripercussioni sull’ambiente, soprattutto in termini di consumo del suolo. “La coltivazione biologica può essere considerata migliore in termini di biodiversità, ma gli agricoltori avranno bisogno di più terra da coltivare per ottenere la stessa quantità di cibo”, spiega Seufert. “Ed è bene ricordare che la conversione del suolo per l’agricoltura è la causa principale della perdita degli habitat e del cambiamento climatico”.

La sfida del domani non quindi solo quello di migliorare qualitativamente la nostra vita e quella dei nostri figli ma di impiegare mezzi di ricerca per accrescere quantitativamente le produzioni senza lo sfruttamento di più terra. Una  bella sfida!!

IL CIOCCOLATO DI MODICA

Una tradizione che si tramanda a Modica dal XVI secolo e che affonda le sue radici in Messico dove 3.500 anni fa i Maya e gli Aztechi utilizzavano il cioccolato come cibo degli dei. Il cioccolato di Modica è ottenuto dalla lavorazione a freddo di ingredienti altamente selezionati, escludendo pertanto la fase del concaggio. La massa di cacao viene lavorata assieme a zucchero di canna grezzo, senza aggiunta di alcun emulsionante o additivo. Grazie a questo lento e lungo processo a freddo i cristalli di zucchero rimangono integri all’interno della massa, donando al prodotto finale una consistenza granulosa e grezza. Ora finalmente anche biologico per la prima volta!

 

Furono li spagnoli nel XVI secolo ad introdurre in Sicilia lavorazione del cioccolato ed precisamente nella Contea di Modica, a quel tempo uno dei più importanti stati feudali del sud Italia, dotato di autonomia amministrativa. Gli spagnoli, a loro volta, l’avrebbero mutuata dalla civiltà precolombiana degli  Aztechi. Attualmente esistono tracce di questo tipo di lavorazione in Spagna (“el chocolate a la piedra”), oltre che nelle comunità indigene di Messico e Guatemala. Leonardo Sciascia ricorda come tale lavorazione rimanesse ai suoi tempi nella città di Alicante, precisando anche che esistessero originariamente le sole due versioni con le aggiunte di vaniglia e cannella. Storicamente si è tramandato come un dolce tipico delle famiglie nobili che durante le feste e le occasioni importanti lo preparavano in casa. In questo modo si è tramandato fino ai giorni nostri e solo successivamente è diventato un prodotto dolciario di fama internazionale.

https://www.youtube.com/watch?v=2IsMNxkiYu4&feature=youtu.be

La massa di cacao, ottenuta dai semi tostati e macinati (detti localmente caracca, provengono da Sao Tomè in Africa) e non privata del burro di cacao in essa contenuta, viene riscaldata per renderla fluida. Ad una temperatura non superiore a 40 °C viene mescolata a zucchero semolato o di canna, e spezie come cannella, vaniglia, zenzero o peperoncino, oppure con scorze di limoni o arancia. Il cioccolato rimane comunque con elevate percentuali di massa di cacao, minimo 65%, anche nelle versioni “classiche” fino ad arrivare alle versioni purissime con 90% di massa di cacao.

Nella lavorazione a mano la massa veniva deposta su uno spianatoio a mezzaluna, detto la valata ra ciucculatta, costruito interamente in pietra lavica e già riscaldato, e poi veniva amalgamata con il pistuni, speciale mattarello cilindrico di pietra, di diverso peso e spessore in rapporto alle fasi di lavorazione e cioè la prima, la seconda e la terza passata, fino alla raffinazione che prendeva il nome di stricata. In molti laboratori oggi queste fasi di lavorazione sono effettuate da più moderne temperatrici.

Il composto viene sempre mantenuto ad una temperatura massima di 35-40 °C che non fa sciogliere i cristalli di zucchero che rimangono integri all’interno della pasta. Ancora pastoso, viene versato in apposite lanni (formelle di latta a forma rettangolare) che vengono battute sia perché abbia, una volta solidificato e freddo, la forma del suo contenitore sia per far venire in superficie eventuali bolle di aria e rendere il prodotto compatto. La barretta di cioccolato ottenuta è lucida con delle scanalature, a volte più opaca, ha un colore nero scuro con riflessi bruni, una consistenza granulosa e un po’ grezza.

La forza del prodotto consiste nella semplicità della lavorazione, nella masticazione granulosa e friabile grazie sia alla mancanza della fase di concaggio che allo zucchero che si presenta in cristalli, e nell’assenza di sostanze estranee (grassi vegetali, latte, lecitina di soia)

 

La Pasqua in Sicilia

La Sicilia per il visitatore è una terra inesplorata. Forse può suonare strano ma esiste una Isola bellissima che solo un poco per volta possiamo spiegare e  la Settimana Santa è uno di questi  momenti ideali.

E’ difficile riassumere tutto questo e a maggior ragione spiegare le tante sfaccettature di queste ritualità dove il sacro si mescola spesso al profano come spesso avviene. Uno scrigno di sorprese che spesso colpisce al cuore: religiosità popolare, devozione sentita, atmosfera suggestiva e riti che affondano in tradizioni secolari si diffondono in tutte le province. Cortei di congregazioni e confraternite delle arti e dei mestieri nei loro caratteristici e antichi costumi, con passo cadenzato, con la banda che segue ritmi luttuosi o suoni di festa di resurrezione, seguono “scinnute” e “giunte” trasportando statue, teche, crocifissi, vare, fercoli, addobbi floreali, giganti di cartapesta, vassoi con strumenti di crocifissione, simboli religiosi di morte e “festa” e poi Pasqua è festa dolce anche in cucina. Fitta di sapori e tradizioni. Dalle cuddure all’aceddu cu l’ova, biscotti che abbracciano uova sode, dagli agnellini di zucchero e pasta reale, circondati da frutti, alla cassata, nato come dolce pasquale, uno dei simboli della cucina siciliana, dai palummeddi ai pani a forma di colomba

https://www.youtube.com/watch?v=kI6amryN7KE&feature=youtu.be

Interessate è il venerdì santo di Caltanissetta dove scalzi e in un silenzio commovente i Fogliamari d portano in processione il Cristo nero, “ladanti” di preziosi canti tradizionali che raccontano la vita di Cristo, scortati dalla Real Maestranza vestita a lutto. Nella città immobile, illuminata dalle candele, il rito si ripete e unisce culto, storia e la terra dei raccoglitori di erbe amare.

Emozioni che si ripetono dai misteri di Trapani e alle processioni degli incappucciati a Enna, dalla “Diavolata” di Adrano al ballo dei diavoli di Prizzi, con i loro mascheroni, ai Giudei di San Fratello. Senza dimenticare il fascino dei riti pasquali greco-albanesi a Piana degli Albanesi, Contessa Entellina, Santa Cristina, Mezzojuso e Palazzo Adriano.

Si annodano fasce di tela di lino bianche per “Lu Signuri di li fasci” a Pietraperzia, si preparano grandi archi di pane, e frutta, alloro, rosmarino, cereali, datteri, canne, a San Biagio Platani, gli “schetti” si sfidano a Terrasini. A Enna la processione del Venerdì Santo è l’apice delle celebrazione della Settimana santa: le quindici confraternite, la sacra immagine di Maria SS. Addolorata e l’urna con il Cristo Morto sono il fulcro della lunghissima processione per le vie della città. Riti che si ripetono da San Cataldo a Gangi, da Militello ad Adrano, da Caltagirone a Vizzini. E se oggi città e borghi si parano a lutto nella giornata più sentita della quaresima, domenica canti, “iunte”, incontri e abbracci si inseguono con bambini in veste di angioletti a celebrare la Resurrezione.

IL BATTERIO KILLER XYLELLA FASTIDIOSA

Un approfondimento per comprendere le ultime frontiere della ricerca scientifica nella lotta al batterio e la reale possibilità o meno di contenimento dell’ infezione.

Cari lettori. Da tempo era in programma un approfondimento sul caso Xylella fastidiosa, soprattutto in un periodo in cui la lotta a questo patogeno sempre essersi assopita come del resto l’interesse dei media. Allora è arrivato il momento nel nostro piccolo di smuovere le acque e parlarvi in maniera più approfondita di questo patogeno che incombe come un pericolo mortale per l’agricoltura italiana.

Il batterio Xylella fastidiosa infatti  non è affatto debellato e tende più di prima a colpire molto spesso piante di interesse agricolo, la sua comparsa in tali piante è un duro colpo alla produzione agricola e all’economia che ne comporta.  Ma andiamo per ordine.

Cos’è cosa la Xilella Fastiosa?

La Xylella fastidiosa è un batterio non sporigeno gram-negativo appartenente alla famiglia delle Xanthomonadaceae. Non sporigeno significa che, per diffondersi, si annida in alcuni insetti vettori, i quali acquisiscono l’agente patogeno da una pianta infetta e lo trasferiscono nelle piante sane, infettando quest’ultime. Xylella fastidiosa colpisce più di 150 tipologie di piante, molte di queste sono piante a scopo agricolo e ornamentale, come ad esempio l’olivo, gli agrumi e la quercia, per cui si cerca costantemente una cura efficace. La Xylella si instaura e si moltiplica nello xilema delle piante, ovvero nei vasi conduttori, formando una sorta di gel che ostruisce l’intero apparato conduttore della pianta, impedendo un adeguato  e regolare flusso di acqua e sali minerale. Per questo motivo, una sottospecie di questo batterio è l’agente patogeno causante la malattia CDO o CoDiRO, ovvero “complesso del disseccamento rapido dell’olivo”. L’ olivo infatti è una delle piante maggiormente colpite dal batterio xylella fastidiosa, per cui ancora non si trova una cura efficace.

Sono state trovate 4 sottospecie di questo batterio che si distinguono tra di loro dal punto di vista genetico e anche per la tipologie di piante che attaccano:

  • Xylella fastidiosa fastidiosa: ceppi causanti della malattia di Pierce della vite, ceppi da alfalfa, mandorlo, acero.
  • Xylella sandyi: ceppi causanti la bruciatura delle foglie di oleando(ceppi da oleandro,)
  • Xylella Multiplex: ceppi causanti del mal del pennacchio del pesco, inoltre è anche responsabile di alcune malattie dell’olmo, del platano, del susino, del mandorlo, di alcuni alberi ornamentali, del fossile vivente Ginkgo in Giappone e del mirto crespo;
  • Xylella Pauca: ceppi causanti di una serie di malattie che colpiscono gli agrumi e le piante di caffè e anche responsabili del CoDiRO (già accennato prima).

Questo agente patogeno è particolarmente pericoloso e i danni non si manifestano immediatamente, posso volerci delle settimane o addirittura degli anni, quindi l’entità dei danni e il tempo dipendono alla tipologia di pianta colpita. Quando Xylella colpisce una pianta le conseguenze possono essere varie, una delle più diffuse è il dissecamento della bruscatura se non addirittura l’intera pianta, oppure ne limita l’accrescimento di nuovi germogli e rami, o, ancora, comporta all’imbrunimento di alcuni strati interni del legno, anche i più giovani.

Essendo un agente patogeno letale e quasi senza cura, è considerato patogeno da quarantena e la sua segnalazione porta all’immediata eradicazione delle piante colpite, influenzando, per l’appunto, in maniera totalmente negativa l’economica agricola della zona colpita. Ed è proprio ciò che sta succedendo in questo periodo nel Salento. Le segnalazioni sono partite dal 2013, senza prove certe, riguardo il disseccamento degli olivi in questa zona, le quali piante hanno iniziato ad ammalarsi ed ad avere problemi già dal 2008, portano ad una drastica riduzione di produzione di olio d’oliva. Xylella influisce sulla quantità della produzione, non sulla qualità, la quale resta invariata, ma comunque il problema non è indifferente.L’olivo è tra le piante più colpite in Italia dalla xylella fastidiosa: si sta espandendo sempre di più a causa della mancanza di una cura. Si presuppone che gli insetti vettori della pauca, la sottospecie di xylella fastidiosa rivenuta negli olivi del Salento, siano arrivati fino al sud Italia sin dalla Costa Rica, dove se ne trova un ceppo gemello. Ma essi, da soli, non sarebbero mai arrivati. Quindi si pensa che l’unica spiegazione plausibile sia dovuto al commercio di piante ornamentali arrivate proprio dalla Costa Rica, essendo un produttore di piante ornamentali a livello mondiale. Inoltre, la presenza della Philaenus spumarius, detta anche “sputacchina”, agendo come vettore del batterio, avrebbe a sua volta contribuito alla sua diffusione. Inoltre, gli oliveti della Puglia, soprattutto più al sud, sono tutti poco distanziati gli uni dagli altri, favorendo il contagio.

Ma cosa è stato fatto in questi anni per contenere i danni e trovare una soluzione?

Con la Legge di Stabilità 2014, sono stati destinati 2.630.430 di euro per “misure urgenti per fronteggiare il rischio fitosanitario connesso al batterio Xylella fastidiosa”. Tale importo è stato impegnato a favore dell’Agenzia Regionale per le attività Irrigue e Forestali (ARIF) della Regione Puglia, di cui ad oggi, risulta liquidato, solo il primo anticipo previsto, pari a 1.315.215 di euro.

In un secondo momento, con il decreto legge 51/2015, sono stati accreditati alla Regione Puglia 9.785.291,35 euro, per indennizzare gli agricoltori colpiti da Xylella anche se ad oggi  non risultano attività intraprese dalla Regione in tale senso.

Attraverso il Piano olivicolo, inoltre, il Ministro delle politiche agricole di concerto con il Ministro dell’economia ha emanato una legge che destina per un triennio alla Regione Puglia 2.500.000 euro, per le attività di ricerca relative alla difesa da organismi nocivi nel settore olivicolo. Il 25 luglio 2016, la Commissione europea ha notificato al Governo italiano la costituzione in mora concernente le misure di protezione contro la diffusione del batterio “Xylella fastidiosa”, complementare a quella già avviata il 10 dicembre 2015, per la violazione del dovere di leale cooperazione, contestando, in particolare, la mancata eradicazione degli alberi infetti nei 20 km nella zona di contenimento e i ritardi nell’effettuazione del monitoraggio nelle aree interessate.
“Per far fronte alle carenze evidenziate la Regione Puglia ha provveduto alla selezione e al reclutamento di ulteriori 172 tecnici (agenti fitosanitari), al fine di incrementare le attività di monitoraggio delle aree demarcate”.
Nel mese di novembre 2016, la Commissione ha condotto un audit in Puglia per verificare sul campo la situazione del focolaio di Xylella fastidiosa e la corretta attuazione delle misure fitosanitarie di lotta alla batteriosi, in conformità alla decisione dell’Unione Europea. Il gruppo ispettivo della Commissione Ue, ha considerato positivo il monitoraggio messo in atto dalla Regione e la ripresa delle eradicazione (a seguito dei blocchi amministrativi e penali) perché in linea con le disposizioni UE.

Per dirla in breve il lavori di questi anni si è limitato con la messa in quarantena dell’ area colpita e l’ abbattimento delle piante infette. Nel mentre si è dato impulso alla ricerca di una soluzione del problema.

La seconda operazione altrettanto penalizzante è stata a partire dal 2015, la decisione di esecuzione della normativa (UE) 2015/789 consistente nella restrizione alla movimentazione delle piante probabili ospiti del batterio e nel 2016  specificate limitazioni sono state imposte alle esportazioni nazionali di materiale vivaistico ancora in essere da parte di alcuni Paesi.

Salento – Piante infette dalla Xylella fastidiosa

Sebbene questi interventi hanno rallentato la diffusione del patogeno di fatto la messa in quarantena dell’ area colpita non è stata sufficiente e i danni per il comparto olivicolo ingentissimi tanto che attualmente ad Oria e a Gallipoli ettari ed ettari di terre, che prima ospitavano centinaia di olivi, si stanno spopolando: non essendoci una cura, è abbattere li alberi rimane  l’unico modo per evitare di ”infettare” altre zone. Focolai d’infezione sembrano poi spuntare in altre parti della Puglia e la ricerca scientifica alla luce della modalità con cui la  xylella fastidiosa si trasmette hanno ormai fatto accantonare qualsiasi speranza di eradicazione del batterio, facendo così concentrare gli sforzi sulle azioni di contenimento e sulla ricerca di soluzioni che consentano una convivenza sostenibile con la pericolosa infezione. Ed è proprio grazie a questi sforzi che oggi per l’olivicoltura salentina si apre uno spiraglio di rinascita grazie alle sperimentazioni che hanno portato a scoprire varietà di ulivi in grado di tollerare abbastanza bene la xylella. L’ultimo studio riguarda la “favolosa”, (in gergo tecnico si chiama “FS-17”), un olivo che, secondo quanto svela il Cnr di Bari e il Centro di ricerca “Basile Caramia” pare metta in difficoltà il batterio, addirittura meglio del “leccino”, l’altra specie olivicola su cui si sono concentrate le ultime sperimentazioni  che pure sembra tollerare la malattia.

La ricerca condotta dal CNR  firmata da più di 30 studiosi dimostra soprattutto come la cultivar “favolosa” presenti una carica batterica bassissima o addirittura inesistente. Un risultato che incoraggia i ricercatori. Nello stesso studio anche altre analisi sul “leccino” condotte in alcuni oliveti del Salento. «I risultati che continuano a emergere dalle osservazioni in campo e dalle indagini diagnostiche – sottolineano i ricercatori nello studio – fanno ben sperare circa una possibile convivenza con il batterio». Il lavoro, parzialmente finanziato dal programma Ue di ricerca e innovazione Horizon 2020, nell’ambito dei progetti “POnTE” e “XF-Actors”, scaturisce dalle attività sperimentali condotte da tre Istituti di ricerca pugliesi in collaborazione con l’agronomo Giovanni Melcarne ed altri soggetti del mondo agricolo.

Grazie alle analisi sierologiche (Elisa) e molecolari quantitative (qPCR), condotte su diverse centinaia di piante in oliveti multivarietali sottoposti a fortissima pressione di inoculo in zona infetta, il Cnr svela che la cultivar “FS-17”, oltre che essere asintomatica presenta una minore incidenza percentuale di piante infette (appena il 12% di piante infette rispetto al 50% in “leccino” e 100% in “ogliarola salentina”); inoltre, quando infetta, ha la più bassa concentrazione batterica poiché nelle piante analizzate è stata ritrovata, in media, la metà della concentrazione di “leccino” e circa un centesimo della concentrazione in “ogliarola salentina”. Tutte le 10 piante di “ogliarola” sono risultate positive alla xylella, anche l 177 piante di “kalamata” hanno mostrato un elevato valore percentuale di positivi (70%). Soltanto 9 delle 18 piante di “leccino” analizzate sono risultate positive al batterio, mentre sorprendenti i risultati sulle piante di “FS-17”: solo il 12,4% delle 201 piante saggiate è risultato positivo con valori di assorbenza media più bassi di quelli del “leccino”.

La Provola dei Nebrodi

Cari Amici! In questa puntata di Blog voglio addentrarmi nel mondo dei formaggi siciliani e nello specifico in questo ambito parlare della Provola dei Nebrodi o Caciocavallo. Per  fare ciò mi affiderò alle conoscenze trasmesseci dal “ Manuale Teorico Pratico d’ Agricoltura e Pastorizia” del Sac. Gaetano Salamone, andata alle stampe per la prima volta a Mistretta nel 1872 e ad oggi una preziosissima testimonianza della  tradizionale tecnica di lavorazione di questo singolare formaggio a pasta filata.

La provola dei Nebrodi

Eccovi diseguito il paragrafo relativo al caciocavallo o provola dei Nebrodi:

“La Provola dei Nebrodi “ Si fa dal latte di vacca o capra mescolato al quello della vacca, ed anco solo: ma i migliore si cava dal latte di vacca.

Quando vorrà farsi caciocavallo, il latte quagliato nel modo sopradetto si rompe con un lungo bastone, alla cui estremità vi è attaccata una ruota di legno circolare piana o convesso-concava, del diametro d’un palmo più o meno, secondo la quantità della quagliata e la grandezza della tina, il quale ordegno si chiama (ruotola) e si dibatte e si rimena tanto, finchè la massa prenda nuovamente l’ aspetto quasi di latte, e tanto meglio riesce; quanto più si fatca. Ciò fatto si lascia riposare un 6, o 10 minuti, nel qual tempo la parte caseosa, ridotta in una massa bianca, detta (tuma) si precipita nel fondo e la parte sierosa, detta (lacciata) salisce sopra.  Allora il cascinaio detto (summataru) comincia a premerla con la rotola per viepiù consolidarsi ed i giovani con piccoli vasi di legno aventi la figura d’un cono troncato con l’ altezza ed il diametro di circa un palmo nel vuoto interno, detti (scischi) prendono la lacciata dalla tina e la mettono entro la caldaia di rame per fare la ricotta. Levata tutta la lacciata mettono scisce piene d’ acqua, o altri pesi sopra la tuma per asciugarsi maggiormente e consolidarsi, raccogliendo sempre la lacciata che esce da detta tuma. Ridotta a tale stato si taglia in 2,3 o 4 pezzi secondo la quantità, si esce dalla tina e si mette entro un tavolone largo da 4 a 5 palmi, lungo da 5 in 6, alto ne’ suoi labri poco meno di 2 decimetri detto tavuliere. Ivi si taglia a strisce larghe circa 4 dita e si mette di nuovo entro la tina. Siccome fra questo mentre si è fatta la ricotta nel modo che saremo per dire appresso, si mette nella tina tanto siero bollente, quanto sopravanza 4 dita sopra le strisce della tuma e si lascia concuocere finchè il siero si raffreddi astato di potervi soffrire la mano.

Il caciocavallo prende il nome dalla tradizionale maniera di conservazione su travette

Allora si esce nuovamente la tuma dalla tina, si mette nel tavoliere, si liscia con le mani e si preme per ispogliarla da siero e bene asciuttata, s’è tempo d’inverno, si mette sopra una tela e si coverta, s’è tempo d’ estate, si sospende ad un legno, e si tratiene in tale stato per lo spazio di 12, 18 o 24 ore finchè s’avveri la fermentazione acida. Quando è già lievitata si taglia a strisce della grossezza di un pollice e si mette entro una tina del diametro ed altezza di circa tre palmi, detta (piddiaturi), si coverta nuovamente con siero bollente sino a due dita sopra e si tiene coverta per lo spazio di 8 minuti circa per ammollirsi ben bene. Dopo con un legno lungo  5 palmi circa detto ( manuvedda) si fatica, preme e rivolta in tutti i versi, dicono essi (si scana) come si fa con la pasta, per lo spazio d’un mezzo quarto, finchè si riduce ad unica massa. Ciò fatto si pone tutta la massa sopra al manuvedda sostenuta da due persone ed altre due la lisciano con le mani, rivoltandola sopra se stessa nel caso che per eccessiva mollezza s’ allunga di troppo.

Avendola lisciata bene e ridotta in un’unica massa, colle mani si fa in pezzi tanto grandi quanto i caciocavalli che si vogliono fare e di nuovo si mettono dentro il siero ancor caldo che si trova dentro la piccola tina detta piddiatturi. A’caciocavalli sogliono darsi due forme conosciute, credo,da tutti i Siciliani, una a parallelepipedo rettangolare, cioè a quattro facce, larga circa un decimetro e lunghe  circa 4 decimetri e più o meno a piacere di chi la ordina; e l’ altra a (provole) le quali hanno una figura di una gran pera del peso d’un chilogrammo circa. Quelli a 4 facce si fanno sopra un tavolo coi labri rialzati d’un decimetro, detto tavuletta ed una forma di legno simile al casca callo che dovrà farsi. Ordinate tali cose, persone pratiche prendono un pezzo di tuma da dentro il piddiaturi e stringendola nelle mani le danno la forma che si da al pane pria di metterlo nel letto, asciugandolo bene dal siero, gli recidono il piccolo collo che si era formato e in tal forma la mettono posata  a un lato della tavoletta m rovesciata sul lato donde  si strappò il collo e mettono la forma del legno dall’ altro lato. Egli così posto comincia a dilungarsi e mentre il cascinaio (sammataru) ne fatica altri, un giovane lo rivolta e gli appoggia al fianco la forma di legno, finchè prende la forma del parallelepipedo. Questo fra pochi minuti s’indura e serve di lato per dar forma agli altri. Terminata in tal modo lì operazione, si lasciano ivi 24 ore rivoltandoli quando vi è bisogno e dopo si mettono per 48 ore dentro la salamoia preparata in un barile.

Sac. Gaetano Salamone

Le provole si manipolano pure con le mani, dandovi la forma d’una pera e subito si mettono entro la salamoia per 24 ore per addensarsi, altrimenti la forma si schiaccia.

Siccome queste sono più leggere dell’ acqua salata, un giovane continuamente per circa un ora o due ore con una fiscella deve affondare e rivoltare, finchè si saziano da per tutto di salamoia. Dipoi si levano dalla salamoia e legate con una cordellina grossetta di qualunque materia, si sospendono ad un travicello, ove fra lo spazio di circa 8 giorni prendono un colore gialliccio. Allora si mettono nuovamente per altri 24 ore circa entro alla salamoia e più o meno secondo la grandezza e sospese ad un travicello, si conservano all’ uso.

A 6 mesi si induriscono troppo: per conservarsi molli, bisogna untarle di olio di lino, o meglio d’un cemento composto di feccia d’olio comune e di rottami di tegole mediocremente pestate o pure dentro l’olio, ma rancidiscono un poco.

Più volte entro le provole nel manipolarle s’introduce un poco di butiro per mantenerle più umili e d essere un poco più grate a mangiare; ciò per lusso non per mercanzia”.

 

Il Manuale Teorico Pratico d’ Agricoltura Vol. I

del Sac. Gaetano Salamone

Rivistato ed aggiornato dal Dr. Benedetto Salamone

Pagine: 343
Formato: 140×205 mm
Genere: Ambiente e Natura
Collana: TiPubblica
Anno: 2017
ISBN: 978-88-488-1888-9
Lingua: ITALIANO Tags:

16,10 (Iva  Inclusa) Spedizione Gratuita

 

Descrizione

Divisa per esigenze pratiche in due volumi, la presente opera è di indiscusso pregio. Messa alle stampe la prima volta nel 1870,è il frutto di un meticoloso lavoro che il Rev. Sac. Gaetano Salamone condusse per circa due anni, e volto a fornire ad un pubblico non molto erudito le nozioni basilari di scienze agrarie con un attenzione particolare al distretto di Mistretta. Una ristampa dell’ opera è utile per la riscoperta di antiche pratiche agronomiche che oggi definiremmo ecosostenibili. Colmando, tramite note aggiuntive tutte le lacune cognitive sulla scienza agraria le opera oltre che di valore storico-scientifico è inoltre di uso pratico, in ultimo serve dare un nuovo impulso agli studi agronomici in aree geograficamente svantaggiate

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