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Quanto è importante la temperatura di frangitura per il contenuto di fenoli nell’olio extravergine di oliva

La temperatura della pasta delle olive aumenta notevolmente durante la rapida frantumazione delle drupe a causa dell’attrito della pasta contro la griglia e le superfici degli organi di taglio del frangitore

I fenoli rappresentano la classe di composti che principalmente conferisce le proprietà organolettiche e la resistenza all’ossidazione degli oli di oliva vergini, contribuendo anche a determinare alcune delle loro caratteristiche nutrizionali.

La quantità di fenoli presenti negli oli di oliva vergini dipende dal metodo di preparazione della pasta di olive. Precedenti studi hanno evidenziato che l’utilizzo di un frangitore a martelli piuttosto che di un frantoio a pietra produce un maggiore contenuto di fenoli totali, mentre la gramolazione della pasta ne riduce generalmente il contenuto. La maggiore quantità di fenoli totali presenti negli oli ottenuti da una pasta franta a martelli rispetto agli oli estratti da paste molite può essere attribuita alle temperature più elevate raggiunte durante la frangitura, nonché a una maggiore attivazione dei fenomeni di solubilizzazione attraverso i quali una maggiore quantità di composti fenolici passa dai loro siti strutturali all’olio.

Inoltre, la temperatura della pasta aumenta notevolmente durante la rapida frantumazione delle drupe a causa dell’attrito della pasta contro la griglia e le superfici dei martelli prima di essere estratta dal frantoio. Ciò ha inevitabilmente un impatto sulla qualità degli oli e in particolare sui componenti fenolici.

In media, i fenoli totali sono circa il 40% maggiori negli oli ottenuti dalle olive molite alla temperatura più elevata (18 °C). Questo risultato sembrerebbe suggerire che la temperatura di lavorazione delle olive debba essere considerata uno dei fattori responsabili della maggiore diffusione dei composti fenolici in un olio. Come risultato della quantità di fenoli totali presenti, anche il tempo di induzione degli oli, determinato con il metodo Rancimat, era in media 20% maggiore negli oli estratti dalle olive lavorate alla temperatura più elevata. Ciò dimostra ulteriormente la significativa correlazione già segnalata tra la quantità di fenoli totali e i tempi di induzione.

La gramolazione della pasta ha portato a una riduzione del contenuto totale di fenoli negli oli ottenuti da olive lavorate a 18 °C, mentre un leggero aumento è stato registrato negli oli estratti da drupe lavorate a 6 °C. Le variazioni che si verificano nei composti fenolici durante la gramolazione possono essere attribuite all’aumento di temperatura che influenza le proprietà chimiche e fisiche del sistema colloidale acqua/olio; possono anche derivare da una serie di meccanismi contrastanti, correlati alla temperatura, probabilmente causati sia dalla solubilizzazione e dall’idrolisi che portano al passaggio di queste sostanze dai loro siti strutturali nell’olio, sia da fenomeni ossidativi che si verificano nei fenoli che si sono solubilizzati durante la fase oleosa.

Di conseguenza, quando le olive vengono lavorate a 6°C, anche i tempi di induzione degli oli ottenuti da paste frante a martelli e gramolate erano più lunghi rispetto ai tempi registrati per gli oli estratti dalle paste che erano state solo frante a martelli.

Si registrano anche maggiori quantità di tirosolo e idrossitirosolo misurate negli oli estratti dalle olive lavorate a temperatura più bassa, che hanno anche risultato contenere maggiori quantità di acidi caffeico e idrossicaffeico. Gli altri fenoli semplici erano generalmente presenti in quantità maggiori negli oli estratti dalle olive lavorate a temperatura più elevata. Questa situazione complessiva potrebbe essere dovuta a fenomeni ossidativi che si sono verificati in quantità maggiori negli oli estratti da olive frante a temperatura più elevata e che influenzano i fenoli liberi solubilizzati nella fase oleosa dopo il riscaldamento istantaneo della pasta di olive durante la frangitura.

L’oleuropeina è presente in quantità maggiori negli oli estratti da olive lavorate a 6 °C e ciò può essere attribuito al fatto che la degradazione dell’oleuropeina è ridotta a causa della minore attività della β-glucosidasi durante la frangitura. Ad eccezione di alcuni singoli composti fenolici, si è osservata una diminuzione di tutti gli altri negli oli ottenuti da drupe lavorate sia a 18 °C che a 6 °C durante la gramolazione della pasta di olive. Questa diminuzione può essere attribuita all’attività della lipossigenasi che viene rilasciata durante la frangitura e non viene inattivata durante la gramolazione, nonché all’interscambio tra acqua e olio favorito dal complesso colloidale delle paste.

Intensità e durata della siccità influenzano in modo differenziato la crescita delle olive

  


La tempistica, la durata e l’intensità delle restrizioni dell’acqua all’olivo durante l’estate influenzano in modo differenziato la crescita e la produzione delle olive, in base ai processi di sviluppo dei frutti.

Per questo, la risposta morfogenetica dei tessuti a diverse strategie di irrigazione durante l’estate sono stati esaminati in un oliveto spagnolo.

Gli alberi di controllo (CON) sono stati irrigati per mantenere la zona di radice vicino alla capacità di campo durante la crescita dei frutti.

Dal germogliamento a 4 settimane dopo la piena fioritura (WAFB) (Periodo 1) e da 14 WAFB alla raccolta (a 23 WAFB) (Periodo 4) gli alberi di tutti i trattamenti sono stati irrigati a livello controllo.

Durante l’estate sono stati applicati due gravi trattamenti per il deficit idrico irrigando il 30% CON da 4 a 9 WAFB (Periodo 2) in DI-P2 o da 9 a 14 WAFB (Periodo 3) in DI-P3.

Il deficit idrico moderato è stato applicato nei periodi 2 e 3 irrigando al 50% in DI-P2 e 3.

Sono stati valutati la crescita e lo sviluppo del frutto e dei suoi tessuti componenti (esocarpo – buccia, mesocarpo – polpa ed endocarpo – nocciolo), la composizione delle olive, l’area cellulare del mesocarpo e il numero cellulare e le caratteristiche delle cellule sono state misurate alla fine di ciascun periodo.

I deficit idrici hanno ridotto significativamente il volume delle olive al momento in cui sono stati applicati.

Le dimensioni della polpa erano più sensibili al deficit idrico rispetto alle dimensioni dell’endocarpo e hanno mostrato un’elevata capacità di recupero dopo l’irrigazione.

Sebbene la maggior parte delle cellule sia stata sviluppata nel periodo 1, un numero considerevole di cellule del mesocarpo si è formato in seguito. Mentre il numero di cellule della polpa non è stato influenzato dalla riduzione dell’acqua in uno qualsiasi dei periodi di deficit, le dimensioni delle cellule sono state fortemente colpite, ma con un’elevata recuperabilità.

Le dimensioni dell’endocarpo sono state ridotte quando la restrizione dell’acqua è stata applicata in DI-P2 e il suo effetto è continuato fino al raccolto.

Il contenuto di olio delle olive al raccolto non è stato influenzato in modo significativo dalle restrizioni idriche applicate. Lo spessore della buccia, la dimensione delle cellule contenenti olio e il loro numero al raccolto sembrano rispondere sia al regime di irrigazione che alle pressioni di espansione delle olive.

di R. T.


La produttività dell’olivo e la resa in olio spiegati dai parametri di fertilità del suolo

  


La produzione di olive (Olea europaea L.) negli ambienti mediterranei è per lo più praticata in condizioni di siccità e a basso input. Il contributo dei diversi parametri del suolo e del terreno alla resa dell’olivo non è ben compreso.

Mentre molti studi hanno cercato di valutare l’effetto delle applicazioni di fertilizzanti o della fertilità del suolo sulla produttività dell’olivo, ma sono pochi gli studi sulla relazione inversa.

Alcuni ricercatori in Andalusia, hanno cercato di collegare il vigore degli alberi ai parametri del suolo. Hanno concluso che la profondità della zona radicale era il miglior predittore del volume della chioma, spiegando il 58% della variabilità.

Al contrario, la relazione tra il contenuto minerale delle foglie e la resa è meno chiara.   

Altri autori hanno riportato una forte correlazione negativa tra la produttività dell’olivo e i minerali fogliari fosforo (P), potassio (K), calcio (Ca) e magnesio (Mg).    

E’ quindi necessario valutare l’effetto di diversi parametri del suolo sulla nutrizione dell’albero e sulla produttività in frutti e sulla concentrazione di olio mediante regressioni semplici e multiple, al fine di individuare il modello che meglio descrive la variabilità osservata.          

La produttività dell’olivo e la resa in olio spiegati dai parametri di fertilità del suolo

Per determinare i fattori che influenzano maggiormente la produttività, sono state stabilite correlazioni tra la resa, da un lato, e i fattori suolo/terreno e le concentrazioni di nutrienti fogliari, dall’altro.

Sono stati determinati i parametri di fertilità del suolo e del terreno (pendenza del campo, profondità del suolo) e le concentrazioni di minerali fogliari.

I nutrienti totali disponibili per albero sono stati calcolati utilizzando il volume della zona radicale e le concentrazioni dei nutrienti.

La produttività è risultata ben correlata con la quantità totale di potassio disponibile nel suolo, la quantità totale di azoto nel suolo e la profondità del suolo.

Un modello che includeva la quantità di potassio del suolo, la profondità del suolo, le concentrazioni di boro (B) e ferro (Fe) delle foglie spiegava l’83% della variazione totale della produzione.

La concentrazione di olio era debolmente correlata alle concentrazioni fogliari di zinco, boro, potassio e manganese. La concentrazione di olio non è dunque correlabile ai parametri del suolo o del terreno.

di R. T.


Maggio,il mese della pianta del limone

di Daniela Guercio

L’albero di limone è un piccolo albero sempreverde originario dell’Asia meridionale. È ampiamente coltivato in tutto il mondo per i suoi frutti succosi e aromatici, utilizzati in cucina e per la produzione di succo di limone.

Vediamo nel dettaglio le caratteristiche di un albero di limone

L’albero di limone può crescere fino a un’altezza di 5-7 metri e ha una chioma ampia e ramificata. Le foglie sono ovali e di colore verde brillante, con un margine dentellato. I fiori sono bianchi e profumati, riuniti in infiorescenze a grappolo. I frutti sono ovali o rotondi e di colore giallo quando sono maturi. La buccia del limone è spessa e ricca di oli essenziali, mentre la polpa è succosa e acida.

L’albero di limone preferisce decisamente un clima caldo e umido, con temperature comprese tra i 10 e i 30 gradi. Può tollerare periodi di siccità, ma necessita comunque di annaffiature regolari e frequenti, soprattutto durante la stagione di crescita, per questo il terreno ideale per l’albero di limone deve essere ben drenato e ricco di sostanza organica.

L’albero di limone si propaga per seme o per talea: la semina avviene in primavera, mentre la talea può essere effettuata in qualsiasi momento dell’anno. L’albero di limone inizia a fruttificare dopo 3-5 anni dall’impianto. È una pianta relativamente resistente alle malattie e ai parassiti. Tuttavia, può essere attaccato da alcuni insetti, come gli afidi e la cocciniglia, e da alcune malattie fungine, come il mal secco e la macchia bruna.

Perché il mese di maggio è così importante per l’albero di limone?

Maggio è un mese importante per la cura delle piante di limone, in quanto segna l’inizio della stagione di crescita attiva e la fioritura.

Ecco alcuni punti da tenere a mente per mantenere il tuo limone sano e produttivo: – va aumentata gradualmente l’irrigazione rispetto a quanto fatto nei mesi invernali e bisogna assicurarsi che il terreno sia ben drenato e innaffiato solo quando la superficie è asciutta al tatto. Il momento da dedicare all’irrigazione è preferibilmente al mattino presto, per evitare che l’acqua evapori troppo rapidamente.

– va utilizzato sempre un fertilizzante specifico per agrumi ricco di azoto, fosforo e potassio. È importante concimare regolarmente durante la stagione di crescita, in particolare durante la fioritura e la fruttificazione.

– va praticata la potatura dei rami secchi, danneggiati o incrociati, per favorire la crescita di nuovi rami vigorosi e migliorare la circolazione dell’aria, va fatto sempre all’inizio della primavera o all’inizio dell’autunno, evitando di potare durante la fioritura o la fruttificazione. Elimina i polloni, ovvero i succhioni che crescono alla base della pianta o sul tronco.

– per i fiori o i frutti non è sempre necessario intervenire. Si consiglia di eliminare i fiori in eccesso, per favorire la crescita di frutti più grandi e succosi, mentre i frutti possono essere lasciati sugli alberi, soprattutto quando la pianta è giovane o se si desidera una produzione abbondante, anche se i frutti potrebbero essere più piccoli. Se si nota, poi, che la pianta è troppo carica e i frutti sono troppi e non si vuole raccoglierli, per evitare si pieghi si può usare un tutore, un manico di scopa ad esempio.

– importante è proteggere la pianta di limone dai parassiti e dalle malattie. Controllare, quindi, spesso la pianta e trattare tempestivamente eventuali problemi con prodotti specifici per agrumi e per prevenire da possibili problemi mantenendo la pianta pulita e ben ventilata.

(tratto da Cefalu’ & Madonie Web)

Salva le api: coltiva queste piante nettarifere e fai la differenza

Salvare le api è più che un gesto di amore verso la natura; è un’azione vitale per il nostro ecosistema. Scopri come le tue scelte in giardino possono fare la differenza.

Le api sono tra gli impollinatori più importanti del nostro pianeta, ma sono gravemente minacciate da fattori come la deforestazione, l’urbanizzazione e l’uso eccessivo di pesticidi. Coltivare piante che le attraggano e le nutrano non è solo un atto di conservazione, ma un passo essenziale per mantenere la biodiversità e la salute del nostro ambiente. Questo articolo ti guiderà attraverso le migliori piante nettarifere da coltivare, spiegando come ciascuna di esse può contribuire a sostegno delle popolazioni di api.

L’importanza delle api per il nostro ecosistema

Le api non sono solo creature affascinanti, sono essenziali per la pollinazione di molte delle nostre colture e piante selvatiche. Senza di loro, non solo avremmo una drastica riduzione delle nostre risorse alimentari, ma vedremmo anche un impatto negativo sulla varietà delle piante, essenziali per un habitat sano. Le api aiutano a mantenere l’equilibrio degli ecosistemi e a produrre semi, frutti e verdure che formano la base dell’alimentazione di numerosi animali selvatici.

È allarmante sapere che molte specie di api sono a rischio di estinzione. Il loro declino è accelerato dalla perdita di habitat, malattie, parassiti e, significativamente, dall’uso di pesticidi come i neonicotinoidi, che possono danneggiare il loro sistema nervoso e ridurre la loro capacità di orientamento e sopravvivenza. È qui che entra in gioco la tua azione personale: coltivando piante appropriate, puoi fornire rifugio e nutrimento a queste vitali creature.

Piante nettarifere che fanno la differenza

Non tutte le piante sono ugualmente utili per le api; alcune offrono molto più nettare e polline di altre. Piante come la Lavanda, il Girasole e la Salvia farinacea non solo attirano le api con i loro colori vivaci e il loro nettare abbondante, ma offrono anche habitat essenziali e nutrimento per tutto l’anno. Queste piante sono facili da coltivare e possono trasformare il tuo giardino in un paradiso per le api.

Coltivare piante nettarifere non solo contribuisce alla salute delle api, ma arricchisce anche il tuo giardino, attirando una varietà di altri impollinatori che contribuiscono alla biodiversità e alla vitalità del tuo spazio verde. Questo non solo crea un ambiente più sano e resiliente ma contribuisce anche a un ecosistema più robusto e sostenibile.

Quando e come coltivare

La scelta del momento giusto per piantare è cruciale per il successo del tuo giardino nettarifero. La maggior parte delle piante nettarifere beneficia di una semina primaverile, che consente loro di stabilirsi e crescere robuste prima dell’arrivo dell’estate. Tuttavia, alcune, come i tulipani, necessitano di essere piantati in autunno.

È importante informarsi sulle specifiche esigenze di ogni pianta che decidi di coltivare. Assicurati di considerare anche il tipo di suolo e l’esposizione al sole, poiché questi fattori possono influenzare notevolmente la crescita e la floridità delle tue piante. Pianificare in anticipo ti permetterà di massimizzare la salute delle tue piante e di garantire un habitat ottimale per le api durante tutto l’anno

Piante consigliate per un giardino nettarifero per le api

Prima di darti al giardinaggio, ecco alcune piante che puoi considerare per il tuo giardino nettarifero:

  • Salvia farinacea: questa pianta ama il sole e fiorisce fino al tardo autunno, offrendo cibo per le api per la maggior parte dell’anno. È ideale per chi desidera avere un giardino vivace anche oltre l’estate.
  • Lavanda: con i suoi fiori profumati e lilla, è ideale anche in vaso, perfetta per balconi soleggiati. Oltre a essere esteticamente gradevole, è molto efficace nel fornire nutrimento continuativo alle api.
  • Basilico: nota per tenere lontane le zanzare, questa pianta aromatiche attira le api con i suoi piccoli fiori. Perfetta per chi cerca un doppio beneficio: utilità in cucina e supporto agli impollinatori.
  • Tulipano: uno dei primi fiori primaverili, predilige i climi temperati. Il tulipano aggiunge un tocco di colore precoce al tuo giardino che è molto invitante per le api.
  • Girasole: simbolo dell’estate, è semplice da coltivare e molto efficace nell’attirare api. I suoi grandi fiori gialli non solo abbelliscono il giardino ma sono anche un’importante fonte di cibo per le api.
  • Calendula: i suoi fiori vivaci sono un magnete per le api durante i mesi più caldi. Facile da coltivare, è perfetta per chi inizia il giardinaggio e desidera risultati immediati.

Coltivare queste piante non solo aiuterà le api, ma arricchirà anche il tuo ambiente, offrendoti uno spazio verde più vivo e colorato. Ogni piccolo gesto conta: piantando anche solo una di queste specie, contribuirai significativamente alla conservazione delle api e alla salute del nostro pianeta

Olio rancido, come riconoscerlo

L’ossidazione dei lipidi è stata riconosciuta come il problema principale che affligge gli oli commestibili, poiché è la causa di importanti cambiamenti deteriorativi nelle loro proprietà chimiche, sensoriali e nutrizionali. L’autossidazione e la fotoossigenazione, dovute alla presenza di ossigeno nell’aria, sono praticamente inevitabili. Quando i lipidi si ossidano, possono formare idroperossidi, che sono suscettibili di ulteriore ossidazione o decomposizione in prodotti di reazione secondari come aldeidi, chetoni, acidi e alcoli. In molti casi, questi composti influenzano negativamente sapore, aroma, gusto, valore nutrizionale e qualità generale. Molti sistemi catalitici possono ossidare i lipidi. La maggior parte di queste reazioni coinvolgono alcuni tipi di radicali liberi o specie di ossigeno. L’ossidazione può essere prodotta sia al buio che in presenza di luce, che presentano differenze nel loro percorso di ossidazione dovute all’azione di variabili esterne.

L’olio di oliva vergine è considerato resistente alla degradazione ossidativa a causa di un basso contenuto di acidi grassi saturi, di un elevato rapporto tra acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi e della presenza di componenti minori antiossidanti naturali come α-tocoferolo e composti fenolici. Tuttavia, la degradazione ossidativa dell’olio d’oliva è la causa più importante di una percezione sensoriale sfavorevole.

L’ossidazione dell’olio di oliva: come nasce il difetto di rancido

Per identificare gli odori responsabili di un sapore rancido negli oli di oliva, in primo luogo, i composti aromatici chiave in un olio extravergine di oliva premium sono stati caratterizzati mediante l’approccio sensomico e sono stati poi confrontati con quelli presenti in un sapore rancido certificato. aroma di olio d’oliva ottenuto dal Consiglio oleicolo internazionale (CIO).

L’acido acetico ha mostrato il coefficiente di Pearson più alto tra l’intensità percepita del difetto di rancido e la concentrazione dell’odore. In particolare, (E,Z)- e (E,E)-2,4-decadienale e (Z)-2-nonenale possono essere suggeriti come marcatori chimici per l’irrancidimento dell’olio d’oliva in combinazione con marcatori aromatici positivi, ad esempio l’acetaldeide e (Z)-3-esenale.

Dopo un processo di ossidazione le sostanze volatili iniziali, molte delle quali responsabili delle gradevoli caratteristiche sensoriali dell’olio e prodotte principalmente attraverso vie biochimiche, scompaiono nelle prime ore, e la formazione di aromi sgradevoli, prodotti attraverso vie ossidative, aumenta gradualmente. Sono stati identificati i principali composti volatili possibilmente responsabili di off-flavor (51) ed è stata studiata la loro evoluzione durante il processo ossidativo.

Durante il processo di ossigenazione è stato determinato il contenuto di acidi grassi. Gli acidi grassi insaturi sono risultati essere i principali precursori dei composti volatili presenti nei campioni ossidati. La misurazione precoce del nonanale (che non è stato rilevato affatto, o solo a livello di tracce, nei campioni di olio extravergine di oliva) potrebbe essere un metodo appropriato per rilevare l’inizio dell’ossidazione. Il rapporto esanale/nonanale è stato utilizzato per differenziare tra campioni di olio d’oliva vergine ossidato e di buona qualità. La valutazione sensoriale dei campioni e il valore di perossido concordavano sull’evoluzione dell’ossidazione.

L’ossidazione dell’olio di oliva: come nasce il difetto di rancido

Per identificare gli odori responsabili di un sapore rancido negli oli di oliva, in primo luogo, i composti aromatici chiave in un olio extravergine di oliva premium sono stati caratterizzati mediante l’approccio sensomico e sono stati poi confrontati con quelli presenti in un sapore rancido certificato. aroma di olio d’oliva ottenuto dal Consiglio oleicolo internazionale (CIO).

L’acido acetico ha mostrato il coefficiente di Pearson più alto tra l’intensità percepita del difetto di rancido e la concentrazione dell’odore. In particolare, (E,Z)- e (E,E)-2,4-decadienale e (Z)-2-nonenale possono essere suggeriti come marcatori chimici per l’irrancidimento dell’olio d’oliva in combinazione con marcatori aromatici positivi, ad esempio l’acetaldeide e (Z)-3-esenale.

Dopo un processo di ossidazione le sostanze volatili iniziali, molte delle quali responsabili delle gradevoli caratteristiche sensoriali dell’olio e prodotte principalmente attraverso vie biochimiche, scompaiono nelle prime ore, e la formazione di aromi sgradevoli, prodotti attraverso vie ossidative, aumenta gradualmente. Sono stati identificati i principali composti volatili possibilmente responsabili di off-flavor (51) ed è stata studiata la loro evoluzione durante il processo ossidativo.

Durante il processo di ossigenazione è stato determinato il contenuto di acidi grassi. Gli acidi grassi insaturi sono risultati essere i principali precursori dei composti volatili presenti nei campioni ossidati. La misurazione precoce del nonanale (che non è stato rilevato affatto, o solo a livello di tracce, nei campioni di olio extravergine di oliva) potrebbe essere un metodo appropriato per rilevare l’inizio dell’ossidazione. Il rapporto esanale/nonanale è stato utilizzato per differenziare tra campioni di olio d’oliva vergine ossidato e di buona qualità. La valutazione sensoriale dei campioni e il valore di perossido concordavano sull’evoluzione dell’ossidazione.

Carciofo: origine, varietà e caratteristiche

Con il ricercatore Nicola Calabrese approfondiamo origine, varietà e caratteristiche del carciofo, coltura centrale nel panorama ortofrutticolo italiano

L’Italia è al primo posto nel mondo per superficie coltivata a carciofo. Presente in tutte le regioni, la produzione si concentra soprattutto in Sicilia, Puglia e Sardegna.

Nell’ultimo numero della rivista, con Nicola Calabrese – ricercatore CNR-Istituto di Scienze delle Produzioni Alimentari di Bari – abbiamo approfondito origine, varietà e caratteristiche di questa coltura così centrale nel panorama ortofrutticolo italiano. Eccone la prima parte.

Origine e diffusione

Il carciofo, il cui nome scientifico è Cynara cardunculus L. subsp. scolymus (L.), è originario dei Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. La parola Cynara sembra derivare da cinis perché, secondo Columella, il terreno destinato a ospitare piante di carciofo veniva preventivamente arricchito con cenere.
Gli antichi Greci usavano la parola scolymus per indicare varie specie di cardo selvatico con foglie e capolini appuntiti, utilizzate per numerosi scopi. Dall’arabo al-karshuf, ardi-shoki, harshaf deriva il termine italiano carciofo, lo spagnolo alcachofa, il catalano carxofa; mentre dal neolatino articactus prendono origine la parola italiana ormai in disuso di articiocco, il francese artichaut, l’inglese artichoke, il tedesco artishoke.

Durante il I secolo a.C. gli agricoltori riuscirono ad addomesticare le piante selvatiche del carciofo, che in quel periodo erano consumate a scopo alimentare e farmaceutico, e a metterne a punto la coltivazione. Numerosi autori greci e romani, tra cui Marco Terenzio Varrone, Gaio Plinio Secondo e Lucio Giunio Moderato Columella, citano il carciofo nelle loro opere, tramandando ai posteri le tecniche di coltivazione dell’epoca e le proprietà medicamentose di questa pianta. Le proprietà del carciofo sono anche state descritte da Galeno, medico greco di Pergamo, e attraverso le sue opere il carciofo entra ufficialmente nella medicina e nella farmacopea.

Carciofaia in produzione

Carciofaia in produzione

L’Italia è al primo posto nel mondo per superficie coltivata (38.500 ha, corrispondenti al 33% della superficie mondiale) e produzione di capolini, pari a 376mila t (26% del totale mondiale).

Il secondo Paese produttore è l’Egitto con 315mila t, seguito dalla Spagna (215mila t). Partendo dal bacino del Mediterraneo, la coltivazione del carciofo si è diffusa progressivamente in terre lontane a testimonianza di un lungo percorso ricco di successo che è ben lungi dalla sua conclusione.
Nelle Americhe è stato introdotto dai migranti italiani, spagnoli e francesi e occupa posizioni di rilievo in Perù, Stati Uniti, Argentina e Cile. In Perù, fino a 15 anni fa, la coltivazione del carciofo era poco diffusa e praticata in piccoli appezzamenti sulle Ande a 2.000-3.000 metri di altitudine. Negli ultimi anni, con la diffusione in ambienti pianeggianti costieri sono stati raggiunti altri Paesi tra i quali Francia, Marocco, Algeria, Tunisia, Turchia e Grecia, in cui la coltivazione di questo ortaggio ha una lunga e consolidata tradizione.

In Italia il carciofo è presente in tutte le regioni, ma la coltivazione è concentrata in SiciliaPuglia Sardegna, che complessivamente rappresentano quasi il 90% della superficie e l’85% della produzione nazionale. Presenze significative della coltivazione del carciofo si registrano anche in Campania e Lazio.

Morfologia e panorama varietale del carciofo

La parte edule del carciofo è in realtà un bocciolo fiorale, chiamato capolino, più o meno compatto a seconda della cultivar e della fase in cui viene raccolto. Il capolino a sua volta è costituito da un peduncolo (denominato comunemente stelo o gambo), una base a forma di piccola coppa (ricettacolo, talamo o fondo) sul quale sono inserite quelle che vengono chiamate impropriamente foglie, il cui termine corretto è brattee, di forma diversa (allungata, ovale o semisferica) e colore variabile, dal verde pallido al violetto intenso, a volte dotate di spine all’apice. Le brattee esterne, più consistenti e fibrose, sono normalmente eliminate prima del consumo, mentre quelle interne – più tenere e carnose – costituiscono, assieme al ricettacolo (e spesso anche a una porzione di gambo), la parte edule del capolino. Sulla porzione più interna del ricettacolo sono infine inseriti i primordi fiorali costituenti il pappo, chiamato comunemente peluria o barba.

Capolino di carciofo in fioritura

Capolino di carciofo in fioritura

Il panorama varietale presente in Italia comprende numerose cultivar che hanno a volte una diffusione territoriale limitata e che prendono il nome della località di coltivazione.

Spesso la stessa varietà è denominata in modo diverso in aree differenti, generando confusione non solo per i nomi e gli eventuali sinonimi, ma anche in riferimento agli aspetti tecnici e commerciali.

In Puglia, Sicilia e Sardegna la produzione è basata prevalentemente su varietà di carciofo definite precoci, rifiorenti o autunnali, perché caratterizzate da un calendario di raccolta molto ampio che parte dall’autunno – in alcune zone con opportune tecniche agronomiche la raccolta dei capolini inizia già nella prima metà di settembre – per poi proseguire anche durante l’inverno (laddove le temperature lo consentono) e la primavera successiva. La caratteristica comune di tutte le cultivar di carciofo precoce o rifiorente è quella di produrre, oltre a un buon numero di capolini da destinare al mercato fresco (di solito la produzione autunnale, invernale e parte di quella primaverile), anche una notevole quantità di carciofini, raccolti nei mesi di aprile e maggio e destinati quasi esclusivamente all’industria di trasformazione.

carciofo Capolini

Capolini di carciofo

Le cultivar più diffuse in Puglia sono il Violetto di Provenza, che si è affermato in provincia di Foggia, mentre in provincia di Brindisi è coltivato il Brindisino e in quella di Bari il Locale di Mola; nel territorio pugliese si segnalano inoltre impianti di Terom e Tema 2000.

In Sicilia prevale la coltivazione del Violetto di Sicilia, del Catanese e altri ecotipi a essi ascrivibili; molto comune e apprezzato sui mercati locali è il Violetto Spinoso di Palermo.

In Sardegna è maggiormente diffusa la cultivar Spinoso Sardo, con capolini muniti di robuste spine, ma dal sapore molto delicato, perfetti per essere consumati crudi, tagliati in fette sottili e assieme ai gambi, in pinzimonio. Terom, Tema 2000Masedu e Romanesco completano l’offerta varietale della Sardegna.

Particolarmente diffuse nel Lazio e in Campania sono le diverse tipologie di carciofo romanesco (C3CampagnanoCastellammare, Tondo di Paestum), cultivar con epoca di produzione tardiva con le raccolte che cominciano di solito dalla fine di febbraio e che proseguono fino a maggio. Di pregio notevole è la produzione del Carciofo violetto di Sant’Erasmo, coltivato sull’isola di Sant’Erasmo nella laguna di Venezia; i capolini principali, raccolti quando molto piccoli e chiamati comunemente “castraure”, sono consumati crudi.

Negli ultimi anni, in tutti gli ambienti cinaricoli nazionali sono state introdotte con successo cultivar ibride propagate per seme, destinate sia al mercato fresco che alla trasformazione industriale, e che si contraddistinguono per le produzioni elevate, l’ottima qualità dei capolini e la sanità delle piante.

La forte radicazione territoriale della produzione cinaricola italiana, caratterizzata in alcune aree da particolari condizioni pedo-climatiche, specifiche soluzioni di tecnica agronomica, profondi e antichi legami sociali e culturali con il territorio e le sue tradizioni, spiega la possibilità di valorizzare la produzione del carciofo di alcune zone con marchi DOP o IGP fortemente legati al territorio di produzione. Troviamo infatti in Puglia il Carciofo Brindisino IGP, nel Lazio il Carciofo Romanesco del Lazio IGP, in Sardegna il Carciofo Spinoso di Sardegna DOP e in Campania il Carciofo di Paestum IGP.

Primavera – tempo di concimazioni

La primavera è il momento in cui la natura si risveglia, e con essa, anche gli alberi da frutto nel tuo giardino iniziano il loro ciclo vitale. La chiave per una fioritura abbondante e una ricca produzione di frutti risiede nell’uso sapiente dei concimi naturali. Questi non solo nutrono le piante ma migliorano anche la struttura del suolo, rendendolo più fertile e vivo. In questo articolo, esploreremo come l’impiego di queste sostanze organiche in marzo possa fare la differenza, portando i tuoi alberi a un nuovo livello di prosperità.

Il momento giusto per concimare: una guida stagionale

La concimazione degli alberi da frutto richiede un approccio mirato che rispetti le esigenze nutrizionali specifiche delle piante durante le varie fasi della loro crescita. In primavera, la necessità di azoto diventa predominante per supportare lo sviluppo vigoroso di foglie e rami. L’utilizzo di concimi a lenta cessione durante questo periodo assicura una fornitura costante e bilanciata di nutrienti, evitando picchi che potrebbero stressare le piante.

Con l’arrivo dell’estate, l’attenzione si sposta verso il potassio, fondamentale per stimolare una fioritura abbondante e supportare la produzione di frutti. Questo elemento aiuta anche le piante a resistere meglio a stress idrici e termici. L’autunno rappresenta il momento per un’ultima concimazione, con l’obiettivo di preparare gli alberi al periodo di riposo invernale.

In questa fase, è cruciale fornire una riserva di nutrienti che sostenga le piante fino alla ripresa vegetativa della successiva primavera, completando così un ciclo di nutrizione che le accompagnerà in ogni fase del loro sviluppo. Questa pianificazione attenta garantisce una crescita sana e una produzione ottimale, sfruttando al meglio le risorse naturali e i tempi biologici delle piante.

Tipologie di concimi: naturale vs chimico

Comprendere le differenze tra i concimi organici e quelli chimici è fondamentale per scegliere la strategia di fertilizzazione più adatta al proprio giardino o coltivazione. Entrambi i tipi di concimi hanno vantaggi e svantaggi a seconda delle esigenze specifiche delle piante e dell’ambiente in cui vengono utilizzati.

  • Concimi Organici: Questi concimi sono derivati da materiali naturali, come il letame, il compost, la cenere di legno e altri residui organici. Sono noti per il loro rilascio graduale di nutrienti, che non solo fornisce un’alimentazione bilanciata alle piante nel lungo periodo ma anche migliora la struttura del suolo e la sua biodiversità. Utilizzando concimi organici, si favorisce un ambiente più sano e sostenibile, ricco di microrganismi benefici che aiutano nella decomposizione del materiale organico e nell’assorbimento dei nutrienti da parte delle piante.
  • Concimi Chimici: Questi prodotti sono formulati in laboratorio per fornire una concentrazione elevata di specifici nutrienti, come azoto (N), fosforo (P) e potassio (K), essenziali per la crescita delle piante. I concimi chimici garantiscono un effetto immediato, migliorando rapidamente la salute e la produttività delle piante. Tuttavia, il loro uso eccessivo o improprio può compromettere la salute del suolo, riducendo la presenza di microrganismi benefici e potenzialmente causando l’accumulo di sostanze chimiche tossiche.

La scelta tra concimi organici e chimici dovrebbe basarsi su una valutazione attenta degli obiettivi di crescita delle piante, delle condizioni del suolo e dell’impatto ambientale desiderato. Mentre i concimi organici sono spesso preferiti per un approccio più sostenibile e a lungo termine alla fertilizzazione, i concimi chimici possono essere utili in situazioni specifiche dove è necessario un intervento nutrizionale rapido e mirato.

Concimi naturali fai-da-te

L’adozione di concimi naturali fai-da-te rappresenta un eccellente metodo per nutrire il tuo giardino in maniera sostenibile ed economica. L’acqua di cottura delle verdure, ad esempio, è un’ottima soluzione per riutilizzare risorse altrimenti sprecate, offrendo un mix ricco di nutrienti essenziali per le piante. Le bucce di banana sono un’altissima fonte di potassio, essenziale per stimolare una vigorosa fioritura e supportare lo sviluppo sano dei frutti

La cenere del camino, ricca di potassio, calcio e magnesio, può essere sparsa sul terreno per arricchirlo di minerali vitali, ma va usata con moderazione per non alterare il pH del suolo. I fondi di caffè, con il loro elevato contenuto di azoto, sono particolarmente indicati per acidificare il terreno, beneficiando piante acidofile come azalee e rododendri.

Infine, i gusci d’uovo triturati forniscono calcio, un nutriente cruciale per prevenire disturbi come la marciume apicale nei pomodori, oltre a combattere efficacemente alcuni parassiti del suolo. Questi semplici ma potenti rimedi naturali non solo arricchiscono il terreno ma promuovono anche un giardinaggio più ecologico e consapevole.

benefici insostituibili dei concimi naturali

L’uso di concimi naturali non solo garantisce una nutrizione equilibrata per le tue piante ma contribuisce anche a un ecosistema più sano e sostenibile. Vediamo alcuni dei principali vantaggi:

  • Miglioramento della struttura del suolo: I concimi organici aumentano la porosità del terreno, migliorando l’areazione e la capacità di ritenzione idrica.
  • Incremento della biodiversità: Favoriscono la vita microbica nel terreno, essenziale per la decomposizione organica e l’assorbimento dei nutrienti da parte delle piante.
  • Nutrizione equilibrata: Forniscono un ampio spettro di minerali e altri nutrienti essenziali, promuovendo una crescita sana e bilanciata delle piante.
  • Sostenibilità ambientale: Riducono la dipendenza da prodotti chimici sintetici, limitando l’inquinamento del suolo e delle falde acquifere.

In conclusione, l’utilizzo di concimi naturali rappresenta una scelta vincente per chiunque desideri promuovere una fioritura e una fruttificazione abbondanti nei propri alberi da frutto. Integrando queste pratiche nel ciclo di cura del giardino, si possono ottenere risultati sorprendenti, assicurando al contempo la salute del pianeta.

Fioritura e fruttificazione con concimi naturali.

Ricorda che la natura ha sempre una soluzione a portata di mano; a volte, basta semplicemente ascoltarla e collaborare con essa.

Natale 2023 – scopriamo con gusto la Valle dell’ Halaesa

di Letizia Passarello

Persino gli eterni indecisi sanno che c’è un’unica certezza nei regali di Natale gastronomici: con il cibo non si sbaglia mai. Perché è bello assaggiare, sperimentare, proporre novità. E poi durante le feste le prelibatezze non bastano mai, perché stare a tavola in famiglia e con gli amici, spizzicando e indugiando, è uno dei grandi piaceri del periodo. In Sicilia poi il cibo la fa da padrone e se girato in lungo e in largo la Sicilia, dalle principali città fino ai piccoli borghi dell’entroterra,  troveremo una tradizioni gastronomica e dolciaria affascinante e diversificata, questo grazie soprattutto alla biodiversità naturale del territorio isolano che garantisce la presenza di materie prime di altissima qualità provenienti dal ricco giacimento enogastronomico della regione: le mandorle di Avola, l’uva passa di Pantelleria, la manna di Castelbuono, lo zafferano di Enna, i pistacchi di Bronte, il cioccolato di Modica, i capperi di Salina e il mandarino di Ciaculli

La territorialità costituisce quindi un imperativo categorico per le imprese del settore soprattutto che si trattino di piccoli laboratori a conduzione familiare o aziende più strutturate. Una scelta di marketing che punta sull’originalità e l’unicità dei prodotti, sulla rivisitazione della tradizione in una chiave moderna ed adatta ad un mercato in continua evoluzione.

Una scelta condivisa in pieno anche dalla Casaleni Natural Bio di Placido Salamone, il primo brand dedicato alla produzione agricola bio certificata della Valle dell’Halaesa, un angolo di Sicilia inedito ma ricco di ricco di storia, Un’isola nell’Isola, ai confini del Parco dei Nebrodi, tra la provincia di Palermo e quella della città dello Stretto

Dalla terra alla tavola, senza intermediari, Casaleni Natural bio” è un patto di fiducia tra produttori e consumatori. La vision, contemporanea dal cuore antico, affonda le proprie radici in oltre un secolo di storia della nobile famiglia Salamone che, da ben sei generazioni, cura con rispetto l’azienda agricola, seguendo il ritmo delle stagioni, senza l’utilizzo di sostanze chimiche, per il benessere della salute e la salvaguardia del paesaggio, oltre che dei consumatori. Per un totale di circa 230 ettari, l’azienda agricola Casaleni si divide tra Nicosia, in provincia di Enna, dove ci sono gli allevamenti e la produzione di cereali e Castel di Tusa, in provincia di Messina dove si produce il pregiatissimo olio, e partiamo proprio da qui per presentare due interessanti novità per questo  Natale 2023

Novità che coniugano il passato ed il presente come, appunto, originale nella sua semplicità è la rievocazione dell’ arte artigiana stefanese con la giaretta d’olio d’oliva, espressione di fatto di una tradizione olearia illustre. Il design e la funzionalità delle giare stefanese resero famose queste produzioni in tutto il mondo e la riproduzione in miniatura come idea regalo rappresenta un omaggio ad una intramontabile storia imprenditoriale

Seconda novità i panettoni artigianali della Valle dell’ Halaesa. Parliamo cioè di lievitati naturali realizzati con percentuali d farina prodotta dall’ Azienda che raccontano un territorio ricco di tradizione e produzioni. Il “mistrettese” con cioccolato bianco noci e farcitura di more selvatiche che racconta i sapori della montagna nebroidea, il “Mottese” con crema di nocciole in omaggio al paese di Motta D’Affermo conosciuto per la produzione di nocciole, ed ancora il “Pettinese” panettone agrumato con frutta candita e crema di arance e limone dedicato al paese patria del rinomato limone in seccagno. Esiste poi un comune denominatore che unisce tutti i siciliani, ossia il pistacchio/mandole ed una caratterizzazione dell’Isola di ponte tra l’Oriente e l’ Occidente. Pertanto nel solco di una grande tradizione culturale, Casaleni ha voluto aggiungere due lievitati particolari “Il Siciliano” con cioccolato, granella di mandole e crema di pistacchio e “Alom” che in ungherese significa – Il Sogno – e che costituisce un’ assoluta novità. Un’ incontro equilibrato di gusti che simboleggiano la naturale storia della cultura europea, incontro di civiltà tra Oriente e d’Occidente. Per questa ragione l’albicocca simbolo dell’Est si coniuga con l’agrumato della frutta candita e delle scaglie di buccia di limone, espressione della cultura mediterranea per un sapore unico ed irriproducibile.

FORMAZIONE PROFESSIONALE – IL COLLABORATORE DI CUCINA

Si parla spesso di formazione come un percorso necessario per l’ingresso nel difficile mondo del lavoro.  La formazione è il processo didattico necessario alla trasmissione delle competenze. Può riguardare sia gli studenti al termine di un ciclo di studi così come i lavoratori attivi o alla ricerca di occupazione. Nel primo caso, si parla di formazione professionale iniziale rivolta ai giovani che iniziano la propria carriera lavorativa finita la scuola, l’università o un corso post-universitario. Nel secondo caso si parla di formazione professionale continua. Un tema che coinvolge sia i lavoratori occupati sia quelli inoccupati o disoccupati. In Italia, la formazione professionale è regolata dall’articolo 117 della Costituzione e delegata alle singole regioni che hanno competenza autonoma in materia.

Ogni regione quindi istituisce corsi di formazione, di carattere tematico cioè corsi professionali che hanno come obiettivo l’acquisizione di specifiche nozioni, da poter impiegare nel proprio ambito lavorativo. I corsi di formazione ti aiutano a sviluppare competenze specifiche che possono essere utilizzate nel lavoro o nelle attività personali. Questo può aiutare a diventare più competitivi sul mercato del lavoro e di conseguenza a fare progressi nella carriera.

<<La preparazione di professionalità da inserire nei quadri tecnici di una azienda è un’esigenza richiesta dal mondo imprenditoriale che riduce drasticamente i tempi d’ingresso nel mondo del lavoro. Lavorare con personale specializzato rende dinamica ed efficiente l’azienda, riduce gli errori in fase di lavoro e gratifica il lavoratore nel suo percorso personale di crescita>> come afferma Placido Salamone imprenditore e Vicepresidente del Circolo Anspi Camminiamo insieme di Castel di Tusa ad oggi presieduto dal Rev. Padre Bernardo Idim  che da questa primavera ha lanciato la campagna promozionale per la formazione di quadri professionali nella ristorazione e professionalità turistica in qualità di supporter di enti professionali accreditati allo svolgimento di corsi professionali di settore, di cui il primo in itinere è il corso di “COLLABORATORE DI CUCINA” .

La figura del collaboratore di cucina interviene, a livello esecutivo, nelle attività della ristorazione a supporto dei responsabili dei processi di lavoro. L’utilizzo di metodologie di base, di strumenti e di informazioni gli consentono di svolgere attività relative alla preparazione dei pasti con competenze di base nella scelta, preparazione, conservazione e stoccaggio di materie prime e semilavorati, nella realizzazione di piatti cucinati.

Le competenze professionali che si acquisiscono servono a definire e pianificare le fasi delle operazioni da compiere sulla base delle istruzioni ricevute e del sistema di relazioni; ed a scegliere e preparare le materie prime e i semilavorati secondo gli standard di qualità definiti e nel rispetto delle norme igienico -sanitarie vigenti.

I destinatari di questo progetto sono i  giovani maggiori di 18 anni e adulti disoccupati e occupati e tra i destinatari sono compresi: i titolari di “Buono servizi al lavoro”, i percettori di reddito di cittadinanza che hanno stipulato un Patto per il lavoro (D.lgs. 4/2019 art 4,co.76), i lavoratori dipendenti di aziende posti in CIGS: per i quali è stato sottoscritto un accordo di ricollocazione,(art 24 bis, dl.gs 148/2015), con assegno di ricollocazione (AdR), che non possono beneficiare di Adr per CIGS o per i quali non sia stato sottoscritto l’accordo di ricollocazione ,(art 24 bis, dl.gs 148/2015).

Certamentel’ammissione al corso è condizionata da: presentazione dello stato di disoccupazione (DID rilasciata dal CPI);presentazione titolo di studio (licenza media inferiore) mentre il Il regolamento prevede ai partecipanti con almeno 2/3 delle ore corso frequentate e il superamento dell’esame finale il rilascio di attestato di Qualifica Professionale.

Utili per ampliare le proprie possibilità di inserimento professionale, ed avere dunque maggiori opportunità lavorative, gli attestati di qualifica professionale certificano le competenze e le conoscenze professionali acquisite da un allievo nel corso di un determinato percorso formativo.

Si tratta di un documento con il quale un Ente di formazione, ovvero un’ organizzazione regionale che offre un servizio di qualifica professionale (la Regione di residenza) certifica la frequentazione, da parte di uno studente, di un percorso istruttivo finalizzato a conferire determinate competenze culturali.

Attestato di qualifica professionale, a cosa serve e quando prenderlo

L’attestato di qualifica professionale permette dunque al corsista di esercitare il titolo conseguito e, in base alla tipologia di lavoro e corso di formazione scelto, di esercitare la professione in totale autonomia. Ma vediamo nei dettagli cos’è un attestato di qualifica professionale, la sua validità professionale e come si consegue.

L’attestato di qualifica professionale ha una piena validità in tutto il territorio nazionale, non solo nella Regione in cui è stato conseguito, ma anche nei Paesi esteri appartenenti all’Unione Europea. L’accesso al corso di qualifica professionale è possibile dopo il termine di un percorso di studi di primo grado, dopo aver ottenuto un diploma di licenza media. I corsi professionali sono comunque aperti a tutte le persone che non abbiano ancora raggiunto i 18 anni di età.

Ogni studente può optare per diversi livelli formativi: percorsi di istruzione e formazione professionale triennali, di competenza regionale, senza alcun costo.

I percorsi formativi, volti a conferire la qualifica professionale, hanno infatti una durata di tre anni, e alla fine dell’ultimo anno di corso lo studente dovrà affrontare un esame con finalità abilitative: questo certificherà le competenze acquisite dallo studente, con valore legale.

Dopo aver ottenuto il diploma di qualifica di istituto professionale, sulla base della Decreto legislativo n. 226/05, lo studente potrà optare per il proseguimento della sua carriera professionalizzante, decidendo se fermarsi o frequentare i successivi due anni di specializzazione professionale, in modo da ottenere un diploma di istruzione secondaria superiore ad indirizzo professionale. In alternativa lo studente può cercare di inserirsi subito nel mondo del lavoro, tramite l’iscrizione alle agenzie interinali e agli uffici di collocamento.

Il percorso di formazione per ottenere l’attestato di qualifica professionale: come funziona?

I settori di qualifica professionale, offerti a livello regionale, sono davvero molto numerosi e coprono diverse aree di interessi: vi sono ad esempio quelli attinenti all’industria e all’artigianato, al settore aziendale e turistico, fino a quello sanitario e dei servizi sociali, al settore dell’estetica, del benessere e del mondo artistico. Tutti i corsi mirano ad offrire ai candidati le competenze tecniche e professionali necessarie per operare adeguatamente nel settore lavorativo scelto, questi coprono infatti diversi percorsi istruttivi: attività di laboratorio e pratiche, con la possibilità di accedere a tirocini orientativi e formativi.

Diploma di qualifica professionale in modalità telematica

Si è visto che gli attestati di qualifica professionale, condotti a livello regionale, sono gratuiti e offrono una formazione aperta a quegli studenti che non hanno ancora raggiunto la maggiore età.

Con l’avvento di internet, tuttavia, si sono aperte nuove opportunità per coloro che desiderano studiare e ampliare le proprie capacità professionali pur avendo superato i 18 anni di età. Si tratta di corsi di qualifica professionale online, erogati tramite delle piattaforme di e-learning, i percorsi sono a pagamento e possono essere frequentati da tutti coloro che possiedono un diploma di licenza media.

Alla fine del percorso di studi, durante il quale il candidato avrà modo di seguire lezioni online e apprendere le competenze necessarie per il conseguimento del titolo, gli studenti potranno sostenere gli esami di qualifica professionale privatisti, recandosi presso l’istituto di competenza: l’importante è che siano in grado di documentare la propria idoneità psico-fisica per il lavoro di interesse e che, naturalmente, abbiano frequentato un corso di qualifica professionale o abbiano svolto un impiego per almeno tre anni nel settore relativo alla qualifica al quale ambiscono, purché il lavoro sia stato svolto in modo continuativo.