La gustosa estate palermitana

 

Parlare di  estate palermitana significa entrare nel vivo della tradizione gastronomica di questa città e il momento migliore è certamente luglio, il mese cioè in cui tutti i palermitani devoti festeggiano la loro patrona Santa Rosalia, un’importante festa popolare nota come il “festino” poiché esso è considerato “a granni festa”, la grande festa, si svolge per cinque giorni, dal 10 al 15 luglio, e rappresenta il momento più alto dell’espressione popolare delle tradizioni e del folklore palermitano.

Lo spazio urbano, nei secoli passati, si trasformava in una grande ribalta ove si succedevano in una mescolanza gioiosa, cerimonie pubbliche sia religiose sia civili e gare di decorazioni e d’illuminazione tra i vari quartieri.

“A Santuzza miraculusa” è riferita a quell’anno maledetto, il 1624, in cui la morte nera falciava la popolazione di Palermo. Nessun rimedio umano era giovato ad arrestare il morbo, e le quattro Sante cui in quel periodo era ufficialmente affidata la protezione della città (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa) non riuscivano a contenere il malefico male, né tantomeno i Santi Sebastiano e Rocco, ritenuti specialisti in guarigioni da peste bubbonica.

La leggenda vuole che di Rosalia non si conoscesse nulla, tranne la sua origine, poiché essa visse in onore di santità, sfuggendo alla vita agiata della corte di Re Ruggero. Figlia di Sinibaldo di Quisquina e morta in data incerta in una grotta del Montepellegrino, successivamente trasformata in santuario, apparve ad un cacciatore, tale Vincenzo Bonello, diversi secoli dopo, gli indicò il luogo in cui giacevano le sue spoglie e gli disse di riferire all’Arcivescovo di Palermo di mettere insieme le sacre reliquie in un sacco e di portarle in processione per le strade della città.

’Arcivescovo Giannettino Doria, il 15 luglio del 1624, insieme a tutto il clero e con la partecipazione del Senato e di alcuni cittadini eletti, portò le reliquie in processione, e avvenne che, al loro passaggio, il male regredisse. Palermo in breve fu liberata dalla peste e, in segno di riconoscenza per tanto beneficio, il Senato palermitano si votò alla nuova Santa e decretò che in suo onore, ogni anno, i giorni della liberazione fossero ricordati come il trionfo della Santa, nel frattempo divenuta protettrice della città.

Daallora fino ad oggi il Festino si ripitepe interrottamente ogni anno sempre magnifico e sempre diverso.

In questi giorni per le vie più popolari di Palermo, ed in particolar modo al Foro Italico, luogo dove si conclude il festino con la sfilata del carro della Patrona, i vari odori del cibo si mischiano nell’aria, nelle numerose bancarelle allestite per la festa, infatti, si trovano le specialità della nostra Palermo.

Dalla bancarella del “siminzaro” (venditore di semi di zucca, mandorle, nocciole, lupini….) decorata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine di Santa Rosalia al centro, alla bancarella del “turrunaru” (venditore di torrone) che prepara a vista la cubaita, tagliandola a pezzi con un grosso coltello e che espone ad arte i vari tipi di torrone, fra cui il tradizionale “gelato di campagna“. Passando per le bancarelle del “panellaro“, del venditore del “pane ca’ meusa“, dal tavolo del “purparu” dove oltre al polpo si possono consumare anche cozze e ricci; e poi lo “sfincionaro“, il venditore di fichi d’india e quello che vende pannocchie bollite (“pullanca“). Insomma si può trovare di tutto, non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma per il palermitano doc non è Festino se gli vengono a mancare “u’ muluni” e i “babbaluci.

I “babbaluci” non sono altro che piccole lumache terrestri con il guscio bianco a volte striato di un colore bruno chiaro.

Si raccolgono sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi dove si abbarbicano a grappoli.
Il periodo in cui sono più buone da mangiare è quello che va dal 13 giugno fino al mese di luglio.

L’origine della parola babbaluci deriva probabilmente dall’arabo “babush” termine che indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano si chiamano “babusce”. Alcuni invece ne indicano la provenienza dal greco “boubalàkion”, che significa bufalo, a cui veniva paragonato il “babbalucio” per via delle corna.
Del loro consumo ci arrivano notizie che risalgono agli antichi Greci e Romani che già fin dal 49 a.C. inventarono delle tecniche per allevarle. Utilizzate anche dalla medicina popolare siciliana, venivano usate per guarire casi di esaurimento nervoso, contro l’ eccessiva magrezza e per curare i mali del fegato, ma anche per le congiuntiviti dell’occhio e per le infezioni della pelle, dove venivano applicate dopo essere state schiacciate e mischiate con del lievito, accompagnando la medicazione con apposite litanie, “a razioni“.

Insomma dei “babbaluci” si è sempre fatto un largo consumo e utilizzo, ed è  forse a causa della loro ostinazione determinata, pensate che riesce a percorrere quattro metri al minuto, che è nata persino una canzone popolare dedicata a questi gasteropodi: “Viri chi danno ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttanu i balati, si unn’era lestu a dàrici na vuci, viri chi dannu ca fannu i babbaluci”…

Dal punto di vista organolettico, i babbaluci hanno carni tenere, con pochi grassi e con proteine simili a quelle del pesce, a renderli poco leggeri è l’aglio soffritto nell’olio d’oliva, “l’agghia ‘ngranciata”

Caratteristico poi è il modo in cui si mangiano queste “ghiottonerie cornute”: alcuni utilizzano gli stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco, ma il vero palermitano ama mangiarle “cu scrusciu” (il rumore del mollusco risucchiato), infatti per agevolare l’uscita veloce della lumaca dal guscio, si pratica un piccolo foro, con il dente canino, sulla chiocciola nella parte opposta all’apertura del nicchio testaceo, in modo da creare un canale d’aria da cui il mollusco sarà risucchiato. In fondo il vero piacere di mangiare i babbaluci è questo, e non saziano mai, proprio come recita l’antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari nun ponnu mai saziari”.

Nel periodo in cui si svolge a Palermo il tradizionale Festino, vengono consumati quintali di “babbaluci”, e grosse quantità di “muluna”, per quello che viene definito lo “schiticchio”.

Ma, come dessert o come passatempo nell’attesa di assistere ai fantasmagorici giochi d’artificio, si indugia a sgranocchiare “calia e simenza”, o si gusta il tradizionalegelato di campagna” o “giardinetto“.
In realtà, dal punto di vista organolettico, assomiglia molto al gelato ma non lo è poiché il suo ingrediente principale è lo zucchero, che però ha la caratteristica di sciogliersi facilmente in bocca.

Come il gelato, appunto. Da qui, il nome.

Sorta di torrone tenero d’origine araba, oltre allo zucchero che ne è l’ingrediente principale in assoluto e che veniva importato, ricavato dalla cannamele, altri ingredienti “essenziali” sono: il pistacchio, largamente impiegato, oltre che per il gusto, per il suo verde scintillante che risalta autorevolmente fra gli altri due colori principali, il bianco e il rosso, ricavati da coloranti vegetali.

I tre colori riproducono il tricolore italiano.

Le mandorle, la cannella e la frutta candita, frutti peculiari della terra di Sicilia, vennero aggiunti a gratificazione della cultura magrebina.

Manipolato, come spesso accadeva per i dolciumi, all’interno dei monasteri, si diffuse nel 1860 per acclamare l’arrivo di Garibaldi ed esaltare l’avvenuta annessione all’Italia. I palermitani, con il tricolore, ne furono validi testimoni, e da allora il gelato di campagna è sempre presente in tutte le feste popolari.

E’ il pezzo forte di tutte le bancarelle dei “turrunara”. Ammicca dai ripiani tra le altre golosità e, ulteriore curiosità, può essere preparato in forma quadrata o a forma di mezzaluna; quest’ultima forma si fa risalire ad un simbolismo magico introdotto dalla cultura araba che venerava la natura ed in particolare la luna crescente.

Per i palermitani questo dolce è il simbolo magnificatore di un’occasione quale la festa, il suo consumo scandisce la ricorrenza di calendario. Le preparazioni più recenti, sfuggendo alle rigide tradizioni, propongono prodotti identici dal punto di vista calorico, ma molto più elaborati esteticamente. Cambiano perciò le forme, i colori, gli ingredienti di contorno.

Ma, nonostante il passare degli anni e le inevitabili “contaminazioni” (è successo anche al panettone), la tradizione resiste ad il gelato di campagna si colloca nel firmamento dei dolciumi come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.

Altro protagonista dell’ estate palermitana è poi il gelo di mellone.

l mellone, versione italianizzata del nome dialettale “muluni”, non è altro che  l’anguria o cocomero, frutto abbondantemente coltivato in Sicilia e che raggiunge la sua piena maturazione nel periodo estivo. Dolce e succosa, l’anguria, è un frutto dalle numerose proprietà e dal ridotto apporto calorico. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, il suo sapore dolce non deriva da un elevato contenuto di zuccheri, che anzi è una piccola percentuale, ma dalla presenza di sostanze aromatiche particolari. Questo, insieme alla ricchezza di vitamine A e B e di potassio, lo rendono adatto da consumare anche durante le diete ipocaloriche. Perciò non c’è niente di meglio in estate, quando si sente la necessità di un pò di freschezza o per reintegrare liquidi, che con le temperature torride dei mesi più caldi, inevitabilmente vengono espulsi. Del resto l’anguria ha come caratteristica quella di essere il primo frutto al mondo per contenuto d’acqua, pensate che la sua percentuale è pari a più del 95% .

A Palermo trovare chi vende le angurie è molto facile, addossati ai marciapiedi, disseminati in vari “punti strategici” della città, infatti, si possono vedere camion o moto ape con la sponda posteriore aperta da cui fanno bella mostra piramidi di angurie.

Il venditore di “muluna”  è detto “u mulunaru” riconoscitore esperto del frutto, che ne capisce la maturazione dando uno schiaffo alla corteccia e ascoltandone il rumore, ne garantisce la bontà al cliente.

Per il palermitano l’anguria è forse il frutto più amato, per il sapore dolce e per i suoi colori brillanti, ed è con gusto e soddisfazione che addenta la grossa e invitante mezzaluna, e poco importa se il succo gli bagna le mani e giù fino ai gomiti, o se quasi si lava la faccia, per il palermitano doc, questo è un rito a cui non può rinunciare… infondo è proprio vero che questo frutto ha la caratteristica di provvedere a “manciari, viviri e lavarisi a facci “

Ma tornando alla ricetta del “gelo di mellone”, c’è da dire innanzi tutto che è un dolce squisito ma non è un gelato, contrariamente a quanto può far pensare il suo nome, anche se ce lo ricorda per il suo aspetto, la sua dolcezza e la sensazione di freschezza che sa donare al palato.

C’è chi sostiene che le origini di questo dolce siano albanesi, portato dagli Arberesch che si stanziarono in Sicilia dove ancora oggi risiedono, mantenendo usi e costumi della loro terra natia. C’è invece chi è più propenso a credere che questa golosità risalga al tempo della dominazione araba in Sicilia, per gli aromi del cioccolato, dei pistacchi, del gelsomino, della cannella….

 

 

 

 

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