di Benedetto Salamone
Pagine: 226
Formato: 140×205 mm
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Descrizione
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In Sicilia il 19 marzo non è un giorno come tanti altri. Attraverso una ritualità cristiana e precristiana la festa di San Giuseppe esprime pienamente uno degli aspetti più profondi della tradizione del popolo siciliano e della sua millenaria cultura. Prendendo spunto dall’ opera di Gaetano Basile e Anna Maria Musco Dominici “Mangiare in Festa” edito da Kalos, vi voglio illustrare cosa significa il giorno di San Giuseppe in Sicilia, patrono di molti comuni siciliani forse perché nella tradizione popolare riveste il ruolo di “avvocato dell’ impossibile”. E noi siciliani di avvocati per cause difficili ne abbiamo sempre vavuto bisogno.
Ci ricorda Giuseppe Pitrè che “… dei Santi il più apprezzato patrono è San Giuseppe che occupa tredici comuni”. E come “patri di puvirieddi” viene invocato nei Triunfi; fino agli anni Sessanta si celebravano messe e novene ogni mercoledì a partire da gennaio.
Il suo culto si manifesta con usanze rituali quali il banchetto, gli altari addobbati, la raccolta di elemosine e le processioni. L’ uso di mense su altari particolari è diffuso in tutti i paesi cattolici dell’ area del bacino del Mediterraneo: il cibo, simbolico e rituale, è offerto in una specie di cappelletta ricoperta di rami d’ alloro e mirto, decorata con piccoli pani, detti appunto “di San Giuseppe” legati da cordicelle colorate.
Quest’ uso continua in molti comuni siciliani così come la questua, che è atto di penitenza o di umiliazione, spesso per grazia ricevuta. Una volta tutto ciò che veniva raccolto per le elemosine si portava in giro cin la “retina”, una lunga teoria di muli e asini riccamente bardati. Le cene si offrono a figuranti che rappresentano Gesù,Maria, e Giuseppe, pellegrini affamati di passaggio. Ma anche a “poveri vecchietti” normalmente affidati alla pubblica carità. Almeno per quel giorno.
Vale a pena ricordare che le cene votive dovevano avere un minimo di 19 portate e fino ad un massimo di 101. Nessuno si è mai spiegato quel 19 e 101 che certamente dovevano pur significare qualcosa forse attinente alla cabala.
Infatti le siciliana cene di San Giuseppe discendono direttamente dalla festa ebraica di “Succòth”, cioè la festa delle capanne, detta anche festa dei tabernacoli. Si ricordano così le capanne erette dagli ebrei vaganti nel deserto per ben quarant’anni, dopo la biblica fuga dall’ Egitto.. Anche gli ebrei di Sicilia celebravano quella loro antica con cene di ringraziamento per sette sere di fila con tavole ricche di cibo e dolciumi.
La loro alimentazione obbediva alle leggi della Kasherut, purezza rituale dei cibi, vhe traeva origine da motivazioni igieniche; non si mangiavano carni di animali morti per cause naturali, incidentali o ancora non note e che, quindi, potevano portare malattie. La carne fu quasi sempre quella di ovini, caprini e tanto pollame. Era assolutamente proibito l’ uso della sugna, strutto o sego e si usava solo l’olio d’oliva.
Le minestre occupavano un posto di primaria importanza: ceci, lenticchie e cavoli, soprattutto. Tante verdure cotte servite calde con un filo d’olio oppure crude in insalata. Zucchini, cipolle e porri fritti impanati o in pastella, uova sode oppure in frittata di cipolle. Trionfano le polpettine fritte, le melanzane fritte affettate o intere ma anche farcite dei carne e spezie.
Il pesce per essere Kasher doveva avere le pinne e le squame. Per conseguenza niente anguille, molluschi e crostacei, con la sola eccezione dell’ aragosta. Latte e formaggi per prescrizione talmudica, dovevano essere serviti in apposite stoviglie.
Ogni quindici giorni si faceva il pane di farina di frumento. I pan ricoperti di sesamo,erano mandati dalla famiglia del futuro sposo ai consuoceri per allontanare il malocchio.
San Giuseppe è poi il giorno delle “Vampe” che derivano quasi certamente dalle feste del fuoco legate al primordiale culto solare.
Quei falò dovevano assicurare nuova luce e calore a uomini, animali e piante, di contro la distruzione di tutti gli elementi corruttivi e negativi. E’ assai curioso che questa ritualità coincida all’incirca con l’ equinozio di primavera quando il giorno dura quasi quanto la notte. Poco più tardi la luce del sole avrà il soppravvento sulle tenebre e quei fuochi davano una mano al sole nella lotta contro le tenebre.
Cari Amici!
Molto presto torneremo a parlare del pescato di Tusa e della sua tradizione marinara. Per adesso gustatevi questa ricetta.
Un appuntamento culinario interessantissimo in compagnia dello chef Mario Di Vita, presidente dell’ Associazione Cuochi Valle dell’ Halaesa-Nebrodi e chef del Tus’Hotel, rinomato quattro stelle della ormai celeberrima riviera halaesina. Protagonista di oggi, ovviamente il pesce di stagione, freschissimo ed elemento principe del nostro menu che andiamo a presentare in questo scenario suggestivo della torre trecentesca del Castello di San Giorgio e che troverete nel menu del Tus’ Hotel.
Il primo piatto che proponiamo sono i totani ripieni, un classico della cucina siciliana. I totani, le cui proprietà organolettiche risultano benefiche per il nostro sistema nervoso centrale, sono alla base di questa ricetta gustosissima e sostanzialmente facile da preparare, il cui ripieno risulta rigorosamente fedele alla tradizione a base di pinoli, mandole, pomodorini e pane raffermo.
Ma ancora più originale è la ricetta dei tagliolini neri il cui sapore e colore inconfondibile dato dalla seppia crea un impatto visivo notevole insieme al sugo del pesce gallinella tagliato a tocchetti insieme a pomodorini, prezzemolo e brodo vegetale. Insomma!Una ricetta da leccarsi i baffi.
Per chiudere il pescato del giorno a base di pettini, merluzzi e ricciole, infarinati e fritti a dovere con olio extravergine d’oliva. Non resta che seguire il nostro video e seguire i consigli dello chef.
Buona Visione!!!

Pagine: 182
Formato: 140×205 mm
Genere: Ambiente e Natura
Collana: TuttiAUTORI
Anno: 2010
ISBN: 978-88-488-1133-0
Lingua: ITALIANO
Descrizione
Un opera avvincente che illustra il percorso storico di una prestigiosa razza cavallina creata a Persano(Sa) da Carlo III di Borbone Re di Napoli e di Sicilia nel sec. XVIII, perpetuata dai suoi successori attraverso gli haras di Tre Santi e Ficuzza, e il cui contributo fu rilevante per il miglioramento dell’antico cavallo siciliano (oggi cavallo siciliano indigeno). Un’opera inedita rivolta ad appassionati del settore e nello specifico a chi voglia affrontare in maniera approfondita lo studio del cavallo siciliano indigeno. Un dovuto ringraziamento va dato a Placido Salamone di Casaleni per il determinante contributo prestato per la realizzazione dell’opera e per la scoperta di preziosa documentazione inedita qui pubblicata.
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di Placido Salamone
Ritorna alle stampe dopo oltre centoquarant’ anni il Manuale Teorico Pratico di Agricoltura, la pregevole opera tecnico scientifica del Rev. Sac. Gaetano Salamone messa alle stampe la prima volta nel 1870 e frutto di un meticoloso lavoro condotto dal reverendo per circa due anni finalizzato a fornire ad un pubblico non molto erudito le nozioni basilari di scienze agrarie con un attenzione particolare al distretto di Mistretta. Una ristampa dell’ opera aggiornata e rivisitata in chiave moderna dal Dr. Agr. Benedetto Salamone si era resa necessaria soprattutto per il grande valore storico ed etno-antropologico del opera e che è possibile acquistare online su:
Ad ogni settore agrario trattato dal reverendo, delle note d’aggiornamento completano l’opera che ritorna ad essere utile, allettante e di facile consulto, in grado di fornire all’agricoltore solerte ed attento delle nozioni di rapida conoscenza. Le scienze agrarie, come tutte le scienze sono sempre un cosmo di continua evoluzione, con nuove teorie, scoperte, ed innovazioni grazie all’opera instancabile di studiosi e ricercatori. Guardare avanti con un occhi al passato per dare continuità alla propria tradizione pastorale ma con l’utilità di chi vive ai giorni nostri. Per questo le note aggiuntive non sono mai troppo erudite ed offrono delle conoscenze pratiche che possono rendere la lettura più allettante e dei riferimenti più pratici anche per chi non è molto addentrato nel mondo dell’agraria.

Introdurre lo studio sui manuali teorico-pratici di agricoltura del Rev. Salamone significa fare una panoramica del clima politico e sociale un cui queste opere furono redatte. La Sicilia agricola della seconda metà dell’Ottocento sebbene in maniera tardiva risentiva culturalmente un’influenza di quel progresso culturale già iniziato dal Settecento. Lo confermano le numerose analogie che collegano i manuali de prelato mistrettese con opere come il “Corso di Agricoltura Teorico-Pratico” dell’illustre cattedratico Paolo Balsamo, la cui amicizia con Arthur Young, Robert Bakewel e Sir Humphry Davy oltre ad introdurlo alle più avanzate conoscenze agricole dell’epoca contribuì notevolmente a influenzare il suo pensiero politico, intendendo l’agricoltura in senso moderno, come una scienza che, attraverso l’abolizione di alcune norme protezionistiche, avrebbe potuto aumentare la stabilità economica dei proprietari terrieri (che si sarebbero trasformati in imprenditori) e le condizioni di vita dei contadini.
In verità l’’area geografica dei Nebrodi Occidentali facente capo a Mistretta per tutto il sec. XIX mostrò una vitalità imprenditoriale eccezionale e lo conferma anche il Balsamo nelle “Memorie inedite di pubblica economia ed agricoltura” del 2 gennaio 1808 che così scriveva: <<gli agricoltori di Mistretta e di qualche altra delle nostre popolazioni pressoché unicamente pastori, non ostante le tanto esagerate di sfavorevoli circostanze dell’arido e caldo clima, con l’economia delle pecore hanno spesso messo insieme quelle riguardevoli fortune che frequentemente non si vedono nelle persone dell’istessa condizione nel continente d’Italia ed altrove>>.

Da cosa derivava quest’opulenza? Il fenomeno è spiegato con dovizia dal Rev. Salamone che così scriveva <<.In quel tempo, per la peste e altre cause l’Isola era spopolata e più di ⅔ delle terre erano incolte; fu allora che i Mistrettesi uniti in diverse società presero in fitto vari feudi dell’Isola e più di un 1/3 dei feudi di Val di Mazzara; dai guadagni di queste società ne nacque opulenza di varie famiglie, l’ingrandimento di quasi una metà della Città di Mistretta, l’applicazione di regole di una buona intesa pastorizia e per la notevole pratica e abilità dei campieri e fattori Mistrettesi, questi presiedevano all’agricoltura e pastorizia in buona parte della Sicilia”>>. Un’epoca prosperosa per l’industria agraria e pastorale mistrettese poiché si resero disponibili vaste estensioni di territori, un ridotto insediamento demografico, una forma nuova di conduzione armentizia definita “società”, la quale diede dei profitti economici vantaggiosi. Ma com’era strutturata questa società? Questa era costituita da un proprietario o padrone che anticipava il capitale in denaro e tutto il materiale occorrente per lo svolgimento dell’attività pastorale e a costui si associavano dei soci detti prezzamara, gli animali che appartenevano ai vari soci erano costituiti da bovini, ovini, caprini ed equini. Ciascun socio doveva concorrere in proporzione a tutte le spese della mandra o pagando gli interessi del capitale al padrone o approntando un capitale proporzionato al numero degli armenti che metteva in società: chi portava 1000 pecore concorreva alla spesa per 1000, chi 100 per 100 e così di seguito. Alla fine dell’anno a conteggi ultimati, gli utili si dividevano in proporzione agli animali che ognuno possedeva lasciando in mano del padrone i capitali necessari per le spese della mandra da dover anticipare nell’anno a venire mentre la restante parte rimaneva di guadagno. Questi capitali impiegati per la mandra consistenti in denaro, frumento, e altri generi erano intitolati colonne della mandra.

A inizio secolo le più grandi società mistrettesi di armenti furono quelle del barone Ignazio Russo di Capizzi che il sacerdote Salamone epiteta come “patriarca” da cui tutte le altre trassero origine, quella del barone La Motta di Nicosia e del principe Valguarnera, tutte amministrate e dirette da mistrettesi, e altre grandiose quelle di don Gaetano Mastrogiovanni Tasca, di Lo Jacono, di Cannata, di don Francesco Di Salvo e dei Fratelli Salamone. Per dare un’idea si può con certezza riportare che nel 1812 nella sola Val di Mazzara vi erano ventisette mandre di Mistretta con più di 120.000 ovini. Cessate però nel 1814 le guerre napoleoniche e Re Ferdinando I di Borbone ritornato a Napoli, dopo lo scioglimento del blocco continentale e l’abbandono degli inglesi e riapertosi il commercio con l’estero, i prezzi dei cereali e del bestiame a colpo si abbassarono a meno di un sesto di quanto erano prima e gli affittuari non potendo più pagare quei terreni presi in gabella, dovettero fingersi falliti e ritirarsi da quei siti. Le poche società che rimasero in piedi riuscirono a continuare nella loro attività ed essendo non molte ne trassero grandi vantaggi. A cavallo tra il vecchio Stato borbonico e il nuovo Governo Sabaudo le più grandi mandre di armenti erano delle famiglie Tasca, Allegra, Giaconia, Salamone, Di Salvo Pollineo e Lipari. La società mistrettese rappresentò un’interessante novità nel mondo dell’economia e non è un caso che divenne oggetto di studio per molti economisti che identificano con la dicitura “contratto alla mistrettese”, come cita Salvatore Pagliaro Bordone in “Mistretta antica e moderna- 1902” << l’associazione di più persone nel fitto di un ex feudo, ovvero di qualche altro negozio, costruendo ciascuno per la sua tangente più o meno di quella di un altro socio e dividendosi i guadagni o le perdite secondo a porzione pecuniaria, ossia il tempo del lavoro impiegato da alcuni compagni>>. Dopo il 1830, essendo venuto meno il rapporto di fiducia che legava i diversi soci, si escogitarono altre forme sociali quali ad esempio “le società, dette a spese sapute” cioè chi voleva mantenere 100 pecore o capre, secondo i tempi ed i luoghi, doveva pagare 30 onze circa e poteva allevare 25 agnelli. Alla file dell’anno prendeva tutto il cacio, le ricotte, la lana, e gli agnelli che producevano le suddette pecore e vendeva, per suo conto, le pecore vecchie ed i castrati.; il sistema delle” pecore e capre per il frutto”; dove il padrone principale della mandria riceveva otto onze ed il latte; al padrone delle pecore o capre tutti gli altri prodotti ed in fine quello del “bestiame tenuto a fida”consistente nel pagare al padrone principale una data somma per ogni animale, a condizione dì pascolare detti animali fidati. in quei luoghi ove pascolano gli animali del padrone principale. Se questo retaggio culturale illustre influenzò certamente la formazione delle generazioni successive altre ragioni, vanno spiegate per comprendere a pieno il clima che si respirava alla vigilia della redazione dei già citati manuali di agricoltura. Con la salita al trono di Ferdinando II di Borbone nel 1831 si ebbe un nuovo impulso alla ricerca scientifica in agricoltura, vennero, infatti, istituite nelle province del Regno le Commissioni di Agricoltura e Pastorizia dirette da eminenti studiosi i cui lavori ebbero ben presto le stampe. Nel 1855 si tenne l’Esposizione Universale di Parigi. Questa rassegna internazionale era un’ottima vetrina per i paesi partecipanti, avendo questi la possibilità di mostrare le proprie capacità produttive al mondo che contava. Si costituirono pertanto i comitati promotori circondariali e quello di Mistretta fu presieduto dal Barone Giuseppe Salamone coadiuvato dal Barone Giovanni Russo, il Cav. Croce Melia, il barone Giovanni Sergio, Don Girolamo Larcan e Don Ignazio Di Giorgio. Cinque anni più tardi il Regno delle Due Sicilie sarà brutalmente travolto dalla rivoluzione garibaldina. Nel 1860 a Mistretta regnava il malcontento generale. Mentre l’aristocrazia si era defilata dalla gestione della cosa pubblica in previsione di inserirsi nel nuovo ordine, i contadini intravedevano nella rivoluzione la speranza di ottenere, finalmente, la terra e quindi l’indipendenza economica tanto agognata. Si profilava quell’aspetto politico e sociale importante della questione agraria e contadina. Dal momento in cui Garibaldi sbarcò a Marsala la situazione dell’ordine pubblico, a Mistretta, si fece alquanto preoccupante. Avvennero numerosi disordini. Il 17 agosto 1860, la festa del santo patrono degenerò in un tumulto. Qualcuno attentò alla vita del barone De Carcamo già presidente del comitato provvisorio e Governatore del distretto. Le fasi successive, furono un susseguirsi di consigli comunali, ora per discutere sull’elenco degli indigenti ora sulle terre pervenute al Comune dopo lo scioglimento delle promiscuità da individuale per la ripartizione ora sul problema della quotizzazione, la questione agraria non trova comunque uno sbocco e il problema rimase isoluto ancora per molto tempo.
Comunque nel 1866 con Regio Decreto 3452 del 23 dicembre il nuovo governo italiano ordinava l’istituzione in ogni capoluogo di circondario di “Comizi agrari” al fine di presentare al Governo le innovazioni di ordine generale e locale che si consideravano in grado di migliorare le sorti dell’agricoltura, raccogliere per esso le notizie che fossero richieste nell’interesse dell’agricoltura, fare opera di informazione tra i contadini per diffondere le coltivazioni migliori, i metodi più adatti alla coltivazione, gli strumenti più moderni e perfezionati, promuovendo esposizioni e concorsi di macchine e strumenti agricoli, infine controllare che fossero rispettate le norme di igiene sanitaria. Nel Comizio Agrario di Mistretta sorto per interessamento dell’Avv., Gaetano Giordano fu eletto a presiedere l’avv. don Filafelfio Russo che mostrò da subito un’encomiabile vitalità. L’impegno prioritario del Comizio, come scrivere il sacerdote Salamone, era di “ rendere utile ai nostri contadini e pastori, onde muoverli a migliorare lo stato abbiettissimo di nostra agricoltura” ma senza accorgersene lasciò tramite i manuali di agricoltura un contributo non indifferente alle scienze agrarie in tutte le sue branche e agli studi etno-antropologici di questo vasto comprensorio. Le informazioni che da essi si possono attingere oltre che avere in parte un’utilità reale ancora oggi, costituisco un patrimonio di informazioni inestimabile sulle consuetudini agricole e silvopastorali del territorio nebroideo. Del resto anche se non riporta nel testo disegni e illustrazioni il sacerdote da erudito scrive e parla di agricoltura e di zootecnia con parole molto semplici, descrivendo tutto quello che vede e osserva nelle campagne. I lavori preparatori dell’opera durati due anni furono pubblicati dal Rev. Salamone in due volumi a distanza di pochi anni; in particolare, la prima parte del lavoro, composta di circa 180 pagine, fu data alle stampe nel 1870, presso la locale tipografia comunale, col titolo “Manuale teoricopratico di Agricoltura”; la seconda parte, composta di circa 270 pagine, fu pubblicata nel 1872, presso la tipografia diretta da G. Mauro, dal titolo“Manuale teorico-pratico d’Agricoltura e Pastorizia”. Ognuno dei due volumi si presenta suddiviso in dodici trattati composti a loro volta da parecchi paragrafi. La finalità odierna di una ristampa di tali opere è duplice, la riscoperta di antiche pratiche agronomiche che oggi definiremmo ecosostenibili colmando tramite note aggiuntive tutte le lacune cognitive sulla scienza agraria che il sacerdote data l’epoca in cui visse non poteva possedere, quindi aggiornare e rendere le opere di uso pratico oltre che di valore storico-scientifico. Secondo dare un nuovo impulso agli studi agronomici in aree geograficamente svantaggiate.

di Placido Salamone
Il cibo italiano è da tempo sinonimo di qualità, un marchio che il “Bel Paese” si è ritagliato nel tempo attraverso una costante e meticolosa opera di promozione turistica. Un autentica operazione di marketing che ha spinto europei ed extraeuropei a considerare le competenze gastronomiche dell’italiano generalmente di livello superiore rispetto al resto d’Europa.
In effetti sono numerosissime e variegate le produzioni alimentari d’eccellenza ed il fatto di essere uno degli elementi di punta del “ Italian style” dice già tutto. Insomma! Gli italiani sono un popolo sempre in grado di reinventarsi e ciò è spinto anche e soprattutto dall’ esigenza di contrattaccare in una terra commercialmente sempre più ostile per loro. Per ovviare a questo disaggio da qualche anno per iniziativa di alcuni imprenditori, sono nati in Italia i “salotti del gusto”. L’idea è del tutto nuova e ben diversa rispetto alla semplice e comune degustazione che tutti conosciamo, tanto da avere un largo seguito in Lombardia e Toscana, da sempre in testa in fatto di novità.
I “salotti del gusto” prevedono una area espositiva nella quale le aziende possono presentare, raccontare e condividere con il pubblico, storia, tradizioni e passioni, ma allo stesso tempo è un “laboratorio” nel quale esplorare e sperimentare, con l’ausilio di esperti, prodotti, abbinamenti, tendenze e sapori. L’obiettivo è quello di diffondere la cultura del gusto, formare una rete di contatti e creare sinergie di sviluppo commerciale, per questo i naturali destinatari di questi eventi sono manager, imprenditori, ristoratori, chef, sommelier, buyers, wine&food lovers e opinion leaders.
Salottini ai bordi della sala consentono al pubblico di degustare comodamente ma ciò che più conta è la location. La struttura deve presentarsi di livello medio alto ed in grado di offrire servizi soddisfacenti. Non è un caso che ad oggi a condividere questa idea siano state strutture alberghiere prestigiose come il Gran Hotel Principe di Savoia di Milano o il Grand Hotel Quisisana di Capri solo per citarne alcune.
Questo esperimento è un marchio di fabbrica che rimane ad oggi un esperimento italiano ben riuscito e difficilmente imitabile, ricco di stimoli e destinato a degli sviluppi .Quali sviluppi?
Questo non posso proprio dirvelo!
Una video-ricetta , in compagnia dell’ effervescente Letizia Passarello e di Vincenzo Sambataro , titolare della Trattoria “Le Giare” di Tusa, per presentare Sua Maestà il Carciofo spinoso palermitano in una ricetta tradizionale appetitosa e di facile realizzazione.
E’ricco di potassio, contiene calcio, sodio, fosforo, ferro, magnesio, zinco, rame, manganese e selenio. Il carciofo contiene vitamina A, le vitamine B1, B2, B3, B5, B6, B12, vitamina C, vitamina E, K e J ed inoltre contiene mucillagini e piccole quantità di composti flavonoidi con proprietà antiossidanti: beta-carotene, luteina e zeaxanthina.
Il carciofo è ricco di antiossidanti per la presenza dell’ l’acido clorogenico, una sostanza con proprietà antiossidanti che è in grado di prevenire malattie arteriosclerotiche e cardiovascolari e proteggono contro il cancro. Infatti queste sostanze, come è risaputo, sono uno dei principali mezzi per di difesa del sistema immunitario nei confronti dei radicali liberi, sostanze dannose per la salute che possono dare origine a malattie pericolose tra cui anche i tumori. Le proprietà antiossidanti dei carciofi provengono anche dai polifenoli (quercetina e rutina), dalla vitamina C, la vitamina A, la vitamina E e dai flavonoidi. È stato dimostrato che i flavonoidi hanno proprietà preventive nei confronti del tumore al seno. L’organo che trae i maggiori benefici dalle proprietà del carciofo è il fegato. La cinarina, un acido presente anche nelle foglie, i cui principi attivi vengono disattivati dalla cottura (per questo motivo è meglio consumare il carciofo crudo), favorisce la diuresi e la secrezione biliare. La cinarina è anche utile al fegato per guarire da patologie come epatite, cirrosi ed ittero. Efficace anche in caso di avvelenamento chimico. C’è poi da aggiunge che il carciofo ha proprietà digestive e diuretiche e, grazie alla presenza di cinarina e inulina, permette di abbassare i livelli di colesterolo.
Denunciare! E’ questo l’obbligo di ogni blogger libero ed indipendente affinché si sappia delle conseguenze incontrollate della produzione intensiva dell’olio di palma. Questa volta mettendo nero su bianco. Cibo, cosmetici, e molti altri beni dei principali marchi mondiali contengono ancora olio di palma prodotto attraverso una concorrenza sleale e gravi violazioni dei diritti umani come in Indonesia, dove bambini anche di soli otto anni lavorano in condizioni pericolose. Un infamia enorme già denunciata in passato da Amnesty International, in un rapporto intitolato “Il grande scandalo dell’olio di palma: violazioni dei diritti umani dietro i marchi più noti” frutto di un’indagine sulle piantagioni dell’Indonesia appartenenti al più grande coltivatore mondiale di palme da olio, il gigante dell’agro-business Wilmar, che ha sede a Singapore.
Per conoscere più affondo il problema vi consiglio di seguir questo approfondimento di Daniela Vlacich
https://www.youtube.com/watch?v=wWBxi5Ma8bg&feature=youtu.be
Qualunque consumatore che pensa di fare una scelta etica acquistando prodotti in cui si dichiara l’uso di olio di palma sostenibile dovrebbe tener conto dello sfruttamento dei lavoratori, e della distruzione della foresta pluviale, tutto per installare monocolture di palma da olio, mettendo in pericolo l’ambiente e l’ecosistema. Oltre alle grandi piantagioni dell’Indonesia, dove si concentra la maggior parte della produzione mondiale, la sua coltivazione intensiva si è diffusa dagli anni 2000 anche in diversi paesi africani. Il Gabon, ad esempio, dove il 12 dicembre l’organizzazione statunitense Mighty, che si occupa di campagne ambientaliste, e l’ong gabonese Brainforest hanno pubblicato un rapporto dal titolo “Palm Oil’s Black Box” in cui denunciano la deforestazione praticata dall’azienda Olam in Gabon. Secondo il rapporto, la multinazionale di Singapore avrebbe distrutto la foresta gabonese per installare monocolture di palma da olio, mettendo in pericolo l’ambiente e l’ecosistema di molte specie animali. Dal 2012 Olam avrebbe distrutto approssimativamente 20.000 ettari di foresta. La compagnia ha cominciato ad operare nel paese nel 2010 quando, grazie ad una joint ventures con il governo, ha ottenuto una concessione di 300.000 ettari. Olam ha rigettato le accuse garantendo, invece, il carattere sostenibile e responsabile della sua produzione. La compagnia però, nel comunicato di risposta al rapporto, ammette anche di aver raggiunto un accordo con il Gabon per la conversione di una parte delle zone forestali più degradate, in zone agricole. Nel mese di marzo del 2016 è finita sotto osservazione Socfin, una compagnia belgo lussemburghese che produce gomma e palma da olio in diversi paesi africani, tra cui: Camerun, Nigeria, Costa d’avorio e Sierra Leone. A denunciare Socfin è stata Greenpeace France con il rapporto “Minacce sulle foreste africane” che sottolinea il ruolo della compagnia nella deforestazione del bacino del fiume Congo e di Sao Tomé e Principe. Socfin viene contestata anche dalle comunità locali di contadini che si sono visti sottrarre le loro terre per l’implementazione delle piantagioni. In Sierra Leone sei attivisti sono finiti in carcere con l’accusa di aver distrutto 40 piante di palma nel 2013.
La scoperta di un altra Sicilia ad altezza di sella, il primo appuntamento del nostro speciale parte alla scoperta di una razza cavallina oggi quasi scomparsa- IL CAVALLO SICILIANO INDIGENO – che rimane comunque oggi espressione della Sicilia e del suo inestimabile patrimonio zootecnico.
Attraverso una dotta relazione del Dr. Benedetto Salamone di Casaleni, presidente del CO.RE.C.A.S. (Comitato Regionale per lo studio ed il recupero dell’Antico Cavallo Siciliano) in concomitanza con l’uscita della sua nuova inedita opera editoriale “Il Cavallo Siciliano Indigeno -il gentile siciliano da sella – edizione Lampi di Stampa -Milano” si ripercorre la lunga ed affascinate storia di questa razza cavallina che unisce alla bellezza la dote della frugalità.
Un altra puntata squisitamente siciliana di A Pranzo con Letizia insieme al maestro pasticcere Giulio, titolare della prestigiosa omonima pasticceria sita a Capo d’Orlando, fornitrice ufficiale della Presidenza del Consiglio sotto il Governo Berlusconi. Salita agli onori della cronaca per la famosa “crema del Presidente”.
Alla Torre del Gusto non poteva amancare il dolce tipico della tradizione siciliana: La cassata. Attraverso una scrupolosa spiegazione ed illustrazione di tutti i passaggi, il maestro pasticcere Giulio rivela i segreti per una buona e corretta realiazzazione di questa famosissima torta di origine araba.
Tra gli ospiti di questa puntata, l’ Arch. Giuseppe Siragusa, presidente della Comunità Slow Food Monti, Valli e Costa alesina.
Alla prossima….