La gustosa estate palermitana

 

Parlare di  estate palermitana significa entrare nel vivo della tradizione gastronomica di questa città e il momento migliore è certamente luglio, il mese cioè in cui tutti i palermitani devoti festeggiano la loro patrona Santa Rosalia, un’importante festa popolare nota come il “festino” poiché esso è considerato “a granni festa”, la grande festa, si svolge per cinque giorni, dal 10 al 15 luglio, e rappresenta il momento più alto dell’espressione popolare delle tradizioni e del folklore palermitano.

Lo spazio urbano, nei secoli passati, si trasformava in una grande ribalta ove si succedevano in una mescolanza gioiosa, cerimonie pubbliche sia religiose sia civili e gare di decorazioni e d’illuminazione tra i vari quartieri.

“A Santuzza miraculusa” è riferita a quell’anno maledetto, il 1624, in cui la morte nera falciava la popolazione di Palermo. Nessun rimedio umano era giovato ad arrestare il morbo, e le quattro Sante cui in quel periodo era ufficialmente affidata la protezione della città (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa) non riuscivano a contenere il malefico male, né tantomeno i Santi Sebastiano e Rocco, ritenuti specialisti in guarigioni da peste bubbonica.

La leggenda vuole che di Rosalia non si conoscesse nulla, tranne la sua origine, poiché essa visse in onore di santità, sfuggendo alla vita agiata della corte di Re Ruggero. Figlia di Sinibaldo di Quisquina e morta in data incerta in una grotta del Montepellegrino, successivamente trasformata in santuario, apparve ad un cacciatore, tale Vincenzo Bonello, diversi secoli dopo, gli indicò il luogo in cui giacevano le sue spoglie e gli disse di riferire all’Arcivescovo di Palermo di mettere insieme le sacre reliquie in un sacco e di portarle in processione per le strade della città.

’Arcivescovo Giannettino Doria, il 15 luglio del 1624, insieme a tutto il clero e con la partecipazione del Senato e di alcuni cittadini eletti, portò le reliquie in processione, e avvenne che, al loro passaggio, il male regredisse. Palermo in breve fu liberata dalla peste e, in segno di riconoscenza per tanto beneficio, il Senato palermitano si votò alla nuova Santa e decretò che in suo onore, ogni anno, i giorni della liberazione fossero ricordati come il trionfo della Santa, nel frattempo divenuta protettrice della città.

Daallora fino ad oggi il Festino si ripitepe interrottamente ogni anno sempre magnifico e sempre diverso.

In questi giorni per le vie più popolari di Palermo, ed in particolar modo al Foro Italico, luogo dove si conclude il festino con la sfilata del carro della Patrona, i vari odori del cibo si mischiano nell’aria, nelle numerose bancarelle allestite per la festa, infatti, si trovano le specialità della nostra Palermo.

Dalla bancarella del “siminzaro” (venditore di semi di zucca, mandorle, nocciole, lupini….) decorata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine di Santa Rosalia al centro, alla bancarella del “turrunaru” (venditore di torrone) che prepara a vista la cubaita, tagliandola a pezzi con un grosso coltello e che espone ad arte i vari tipi di torrone, fra cui il tradizionale “gelato di campagna“. Passando per le bancarelle del “panellaro“, del venditore del “pane ca’ meusa“, dal tavolo del “purparu” dove oltre al polpo si possono consumare anche cozze e ricci; e poi lo “sfincionaro“, il venditore di fichi d’india e quello che vende pannocchie bollite (“pullanca“). Insomma si può trovare di tutto, non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma per il palermitano doc non è Festino se gli vengono a mancare “u’ muluni” e i “babbaluci.

I “babbaluci” non sono altro che piccole lumache terrestri con il guscio bianco a volte striato di un colore bruno chiaro.

Si raccolgono sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi dove si abbarbicano a grappoli.
Il periodo in cui sono più buone da mangiare è quello che va dal 13 giugno fino al mese di luglio.

L’origine della parola babbaluci deriva probabilmente dall’arabo “babush” termine che indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano si chiamano “babusce”. Alcuni invece ne indicano la provenienza dal greco “boubalàkion”, che significa bufalo, a cui veniva paragonato il “babbalucio” per via delle corna.
Del loro consumo ci arrivano notizie che risalgono agli antichi Greci e Romani che già fin dal 49 a.C. inventarono delle tecniche per allevarle. Utilizzate anche dalla medicina popolare siciliana, venivano usate per guarire casi di esaurimento nervoso, contro l’ eccessiva magrezza e per curare i mali del fegato, ma anche per le congiuntiviti dell’occhio e per le infezioni della pelle, dove venivano applicate dopo essere state schiacciate e mischiate con del lievito, accompagnando la medicazione con apposite litanie, “a razioni“.

Insomma dei “babbaluci” si è sempre fatto un largo consumo e utilizzo, ed è  forse a causa della loro ostinazione determinata, pensate che riesce a percorrere quattro metri al minuto, che è nata persino una canzone popolare dedicata a questi gasteropodi: “Viri chi danno ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttanu i balati, si unn’era lestu a dàrici na vuci, viri chi dannu ca fannu i babbaluci”…

Dal punto di vista organolettico, i babbaluci hanno carni tenere, con pochi grassi e con proteine simili a quelle del pesce, a renderli poco leggeri è l’aglio soffritto nell’olio d’oliva, “l’agghia ‘ngranciata”

Caratteristico poi è il modo in cui si mangiano queste “ghiottonerie cornute”: alcuni utilizzano gli stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco, ma il vero palermitano ama mangiarle “cu scrusciu” (il rumore del mollusco risucchiato), infatti per agevolare l’uscita veloce della lumaca dal guscio, si pratica un piccolo foro, con il dente canino, sulla chiocciola nella parte opposta all’apertura del nicchio testaceo, in modo da creare un canale d’aria da cui il mollusco sarà risucchiato. In fondo il vero piacere di mangiare i babbaluci è questo, e non saziano mai, proprio come recita l’antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari nun ponnu mai saziari”.

Nel periodo in cui si svolge a Palermo il tradizionale Festino, vengono consumati quintali di “babbaluci”, e grosse quantità di “muluna”, per quello che viene definito lo “schiticchio”.

Ma, come dessert o come passatempo nell’attesa di assistere ai fantasmagorici giochi d’artificio, si indugia a sgranocchiare “calia e simenza”, o si gusta il tradizionalegelato di campagna” o “giardinetto“.
In realtà, dal punto di vista organolettico, assomiglia molto al gelato ma non lo è poiché il suo ingrediente principale è lo zucchero, che però ha la caratteristica di sciogliersi facilmente in bocca.

Come il gelato, appunto. Da qui, il nome.

Sorta di torrone tenero d’origine araba, oltre allo zucchero che ne è l’ingrediente principale in assoluto e che veniva importato, ricavato dalla cannamele, altri ingredienti “essenziali” sono: il pistacchio, largamente impiegato, oltre che per il gusto, per il suo verde scintillante che risalta autorevolmente fra gli altri due colori principali, il bianco e il rosso, ricavati da coloranti vegetali.

I tre colori riproducono il tricolore italiano.

Le mandorle, la cannella e la frutta candita, frutti peculiari della terra di Sicilia, vennero aggiunti a gratificazione della cultura magrebina.

Manipolato, come spesso accadeva per i dolciumi, all’interno dei monasteri, si diffuse nel 1860 per acclamare l’arrivo di Garibaldi ed esaltare l’avvenuta annessione all’Italia. I palermitani, con il tricolore, ne furono validi testimoni, e da allora il gelato di campagna è sempre presente in tutte le feste popolari.

E’ il pezzo forte di tutte le bancarelle dei “turrunara”. Ammicca dai ripiani tra le altre golosità e, ulteriore curiosità, può essere preparato in forma quadrata o a forma di mezzaluna; quest’ultima forma si fa risalire ad un simbolismo magico introdotto dalla cultura araba che venerava la natura ed in particolare la luna crescente.

Per i palermitani questo dolce è il simbolo magnificatore di un’occasione quale la festa, il suo consumo scandisce la ricorrenza di calendario. Le preparazioni più recenti, sfuggendo alle rigide tradizioni, propongono prodotti identici dal punto di vista calorico, ma molto più elaborati esteticamente. Cambiano perciò le forme, i colori, gli ingredienti di contorno.

Ma, nonostante il passare degli anni e le inevitabili “contaminazioni” (è successo anche al panettone), la tradizione resiste ad il gelato di campagna si colloca nel firmamento dei dolciumi come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.

Altro protagonista dell’ estate palermitana è poi il gelo di mellone.

l mellone, versione italianizzata del nome dialettale “muluni”, non è altro che  l’anguria o cocomero, frutto abbondantemente coltivato in Sicilia e che raggiunge la sua piena maturazione nel periodo estivo. Dolce e succosa, l’anguria, è un frutto dalle numerose proprietà e dal ridotto apporto calorico. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, il suo sapore dolce non deriva da un elevato contenuto di zuccheri, che anzi è una piccola percentuale, ma dalla presenza di sostanze aromatiche particolari. Questo, insieme alla ricchezza di vitamine A e B e di potassio, lo rendono adatto da consumare anche durante le diete ipocaloriche. Perciò non c’è niente di meglio in estate, quando si sente la necessità di un pò di freschezza o per reintegrare liquidi, che con le temperature torride dei mesi più caldi, inevitabilmente vengono espulsi. Del resto l’anguria ha come caratteristica quella di essere il primo frutto al mondo per contenuto d’acqua, pensate che la sua percentuale è pari a più del 95% .

A Palermo trovare chi vende le angurie è molto facile, addossati ai marciapiedi, disseminati in vari “punti strategici” della città, infatti, si possono vedere camion o moto ape con la sponda posteriore aperta da cui fanno bella mostra piramidi di angurie.

Il venditore di “muluna”  è detto “u mulunaru” riconoscitore esperto del frutto, che ne capisce la maturazione dando uno schiaffo alla corteccia e ascoltandone il rumore, ne garantisce la bontà al cliente.

Per il palermitano l’anguria è forse il frutto più amato, per il sapore dolce e per i suoi colori brillanti, ed è con gusto e soddisfazione che addenta la grossa e invitante mezzaluna, e poco importa se il succo gli bagna le mani e giù fino ai gomiti, o se quasi si lava la faccia, per il palermitano doc, questo è un rito a cui non può rinunciare… infondo è proprio vero che questo frutto ha la caratteristica di provvedere a “manciari, viviri e lavarisi a facci “

Ma tornando alla ricetta del “gelo di mellone”, c’è da dire innanzi tutto che è un dolce squisito ma non è un gelato, contrariamente a quanto può far pensare il suo nome, anche se ce lo ricorda per il suo aspetto, la sua dolcezza e la sensazione di freschezza che sa donare al palato.

C’è chi sostiene che le origini di questo dolce siano albanesi, portato dagli Arberesch che si stanziarono in Sicilia dove ancora oggi risiedono, mantenendo usi e costumi della loro terra natia. C’è invece chi è più propenso a credere che questa golosità risalga al tempo della dominazione araba in Sicilia, per gli aromi del cioccolato, dei pistacchi, del gelsomino, della cannella….

 

 

 

 

BIOLOGICO, I PRO E I CONTRO

Verena Seufert, autrice e ricercatrice dell’Institute for Resources, Environment and Sustainability (Ires)

di Placido Salamone

Giorno fa ho trovato interessante un articolo della nota giornalista  Marta  Musso dal titolo “Agricoltura delle meraviglie: luci ed ombre del cibo bio” Parliamo sempre di biologico pensando di fare una scelta di acquisto eticamente corretta e salutista. Pensiamo al bio come proposta alternativa più ecologica all’agricoltura convenzionale e anche per questo motivo è il settore alimentare in più rapida crescita sia nel Nord America che in Europa. Ma una disamina di questo modus operandi non sempre è fatta correttamente e quindi arriva il momento di parlare con cognizione di causa. Per fare ciò serve in team di veri esperti come appunto ricercatori della University of British Columbia che hanno indagato i vantaggi e svantaggi dell’agricoltura biologica per la salute e per l’ambiente.

Come ci spiega Verena Seufert, autrice e ricercatrice dell’Institute for Resources, Environment and Sustainability (Ires) e Navin Ramankutty. “Il biologico è spesso proposto come la soluzione ai problemi ambientali e alimentari, ma abbiamo scoperto che i costi e i benefici variano fortemente a seconda del contesto in cui ci si trova”.

Attraverso uno studio sistematico condotto su 17 criteri diversi tra cui la resa del raccolto, l’impatto sui cambiamenti climatici, il sostentamento degli agricoltori e la salute dei consumatori, Seufert è giunta alla conclusione che se da una parte l’agricoltura biologica promuove la biodiversità locale, un più alto valore nutrizionale dei prodotti e una maggiore redditività per gli agricoltori, ha tuttavia degli svantaggi, come prezzi ben più alti e bassi rendimenti rispetto all’agricoltura tradizionale.

Vi domanderete certamente cosa ha di innovativo questo studio di ricerca. Certamente quello di contestualizzare i pro e contro della coltivazione biologica. L’esempio viene fatto mettendo a confronto aree sviluppate con aree in via di sviluppo, partendo dall’ utilizzo di pesticidi sintetici e i benefici nutrizionali del biologico.

Navil Ramankutty – Professor in Global Food Security and Sustainability, Liu Institute for Global Issues and IRES

Come spiegano i due autori, in paesi sviluppati dove sono presenti leggi sui pesticidi molto rigorose e il regime alimentare è già ricco di micronutrienti, i benefici per la salute di scegliere prodotti organici potrebbero essere del tutto marginali. Paradossalmente, la situazione è differente nei paesi più poveri. “In un paese in via di sviluppo – spiega Ramankutty – dove l’uso dei pesticidi non viene controllato e le persone hanno carenze alimentari, riteniamo che i benefici per la salute del consumatore e dell’agricoltore possano essere molto più alti”.
Un altro importante criterio per misurare la sostenibilità dei sistemi agricoli è il rendimento di un raccolto. Finora, la maggior parte degli studi avevano messo a confronto i costi e i benefici delle aziende biologiche e di quelle convenzionali, senza però tener conto delle differenze nel rendimento di differenti colture e tecniche di coltivazione. In media, sottolineano i ricercatori, il rendimento di una coltivazione biologica è tra il 19 e il 25 percento inferiore a quello di una coltivazione convenzionale. Ma il gap può ridursi fino al 5-9 percento, o aumentare fino quasi al 40 percento, prendendo in considerazione prodotti diversi e differenti tecniche di rotazione delle colture. La morale, spiegano i due autori dello studio, è che il bio non è sempre meglio, e un’adozione indiscriminata di queste tecniche di coltivazione avrebbe gravi ripercussioni sull’ambiente, soprattutto in termini di consumo del suolo. “La coltivazione biologica può essere considerata migliore in termini di biodiversità, ma gli agricoltori avranno bisogno di più terra da coltivare per ottenere la stessa quantità di cibo”, spiega Seufert. “Ed è bene ricordare che la conversione del suolo per l’agricoltura è la causa principale della perdita degli habitat e del cambiamento climatico”.

La sfida del domani non quindi solo quello di migliorare qualitativamente la nostra vita e quella dei nostri figli ma di impiegare mezzi di ricerca per accrescere quantitativamente le produzioni senza lo sfruttamento di più terra. Una  bella sfida!!

IL CIOCCOLATO DI MODICA

Una tradizione che si tramanda a Modica dal XVI secolo e che affonda le sue radici in Messico dove 3.500 anni fa i Maya e gli Aztechi utilizzavano il cioccolato come cibo degli dei. Il cioccolato di Modica è ottenuto dalla lavorazione a freddo di ingredienti altamente selezionati, escludendo pertanto la fase del concaggio. La massa di cacao viene lavorata assieme a zucchero di canna grezzo, senza aggiunta di alcun emulsionante o additivo. Grazie a questo lento e lungo processo a freddo i cristalli di zucchero rimangono integri all’interno della massa, donando al prodotto finale una consistenza granulosa e grezza. Ora finalmente anche biologico per la prima volta!

 

Furono li spagnoli nel XVI secolo ad introdurre in Sicilia lavorazione del cioccolato ed precisamente nella Contea di Modica, a quel tempo uno dei più importanti stati feudali del sud Italia, dotato di autonomia amministrativa. Gli spagnoli, a loro volta, l’avrebbero mutuata dalla civiltà precolombiana degli  Aztechi. Attualmente esistono tracce di questo tipo di lavorazione in Spagna (“el chocolate a la piedra”), oltre che nelle comunità indigene di Messico e Guatemala. Leonardo Sciascia ricorda come tale lavorazione rimanesse ai suoi tempi nella città di Alicante, precisando anche che esistessero originariamente le sole due versioni con le aggiunte di vaniglia e cannella. Storicamente si è tramandato come un dolce tipico delle famiglie nobili che durante le feste e le occasioni importanti lo preparavano in casa. In questo modo si è tramandato fino ai giorni nostri e solo successivamente è diventato un prodotto dolciario di fama internazionale.

La massa di cacao, ottenuta dai semi tostati e macinati (detti localmente caracca, provengono da Sao Tomè in Africa) e non privata del burro di cacao in essa contenuta, viene riscaldata per renderla fluida. Ad una temperatura non superiore a 40 °C viene mescolata a zucchero semolato o di canna, e spezie come cannella, vaniglia, zenzero o peperoncino, oppure con scorze di limoni o arancia. Il cioccolato rimane comunque con elevate percentuali di massa di cacao, minimo 65%, anche nelle versioni “classiche” fino ad arrivare alle versioni purissime con 90% di massa di cacao.

Nella lavorazione a mano la massa veniva deposta su uno spianatoio a mezzaluna, detto la valata ra ciucculatta, costruito interamente in pietra lavica e già riscaldato, e poi veniva amalgamata con il pistuni, speciale mattarello cilindrico di pietra, di diverso peso e spessore in rapporto alle fasi di lavorazione e cioè la prima, la seconda e la terza passata, fino alla raffinazione che prendeva il nome di stricata. In molti laboratori oggi queste fasi di lavorazione sono effettuate da più moderne temperatrici.

Il composto viene sempre mantenuto ad una temperatura massima di 35-40 °C che non fa sciogliere i cristalli di zucchero che rimangono integri all’interno della pasta. Ancora pastoso, viene versato in apposite lanni (formelle di latta a forma rettangolare) che vengono battute sia perché abbia, una volta solidificato e freddo, la forma del suo contenitore sia per far venire in superficie eventuali bolle di aria e rendere il prodotto compatto. La barretta di cioccolato ottenuta è lucida con delle scanalature, a volte più opaca, ha un colore nero scuro con riflessi bruni, una consistenza granulosa e un po’ grezza.

La forza del prodotto consiste nella semplicità della lavorazione, nella masticazione granulosa e friabile grazie sia alla mancanza della fase di concaggio che allo zucchero che si presenta in cristalli, e nell’assenza di sostanze estranee (grassi vegetali, latte, lecitina di soia)

 

La Pasqua in Sicilia

La Sicilia per il visitatore è una terra inesplorata. Forse può suonare strano ma esiste una Isola bellissima che solo un poco per volta possiamo spiegare e  la Settimana Santa è uno di questi  momenti ideali.

E’ difficile riassumere tutto questo e a maggior ragione spiegare le tante sfaccettature di queste ritualità dove il sacro si mescola spesso al profano come spesso avviene. Uno scrigno di sorprese che spesso colpisce al cuore: religiosità popolare, devozione sentita, atmosfera suggestiva e riti che affondano in tradizioni secolari si diffondono in tutte le province. Cortei di congregazioni e confraternite delle arti e dei mestieri nei loro caratteristici e antichi costumi, con passo cadenzato, con la banda che segue ritmi luttuosi o suoni di festa di resurrezione, seguono “scinnute” e “giunte” trasportando statue, teche, crocifissi, vare, fercoli, addobbi floreali, giganti di cartapesta, vassoi con strumenti di crocifissione, simboli religiosi di morte e “festa” e poi Pasqua è festa dolce anche in cucina. Fitta di sapori e tradizioni. Dalle cuddure all’aceddu cu l’ova, biscotti che abbracciano uova sode, dagli agnellini di zucchero e pasta reale, circondati da frutti, alla cassata, nato come dolce pasquale, uno dei simboli della cucina siciliana, dai palummeddi ai pani a forma di colomba

Interessate è il venerdì santo di Caltanissetta dove scalzi e in un silenzio commovente i Fogliamari d portano in processione il Cristo nero, “ladanti” di preziosi canti tradizionali che raccontano la vita di Cristo, scortati dalla Real Maestranza vestita a lutto. Nella città immobile, illuminata dalle candele, il rito si ripete e unisce culto, storia e la terra dei raccoglitori di erbe amare.

Emozioni che si ripetono dai misteri di Trapani e alle processioni degli incappucciati a Enna, dalla “Diavolata” di Adrano al ballo dei diavoli di Prizzi, con i loro mascheroni, ai Giudei di San Fratello. Senza dimenticare il fascino dei riti pasquali greco-albanesi a Piana degli Albanesi, Contessa Entellina, Santa Cristina, Mezzojuso e Palazzo Adriano.

Si annodano fasce di tela di lino bianche per “Lu Signuri di li fasci” a Pietraperzia, si preparano grandi archi di pane, e frutta, alloro, rosmarino, cereali, datteri, canne, a San Biagio Platani, gli “schetti” si sfidano a Terrasini. A Enna la processione del Venerdì Santo è l’apice delle celebrazione della Settimana santa: le quindici confraternite, la sacra immagine di Maria SS. Addolorata e l’urna con il Cristo Morto sono il fulcro della lunghissima processione per le vie della città. Riti che si ripetono da San Cataldo a Gangi, da Militello ad Adrano, da Caltagirone a Vizzini. E se oggi città e borghi si parano a lutto nella giornata più sentita della quaresima, domenica canti, “iunte”, incontri e abbracci si inseguono con bambini in veste di angioletti a celebrare la Resurrezione.

IL BATTERIO KILLER XYLELLA FASTIDIOSA

Un approfondimento per comprendere le ultime frontiere della ricerca scientifica nella lotta al batterio e la reale possibilità o meno di contenimento dell’ infezione.

Cari lettori. Da tempo era in programma un approfondimento sul caso Xylella fastidiosa, soprattutto in un periodo in cui la lotta a questo patogeno sempre essersi assopita come del resto l’interesse dei media. Allora è arrivato il momento nel nostro piccolo di smuovere le acque e parlarvi in maniera più approfondita di questo patogeno che incombe come un pericolo mortale per l’agricoltura italiana.

Il batterio Xylella fastidiosa infatti  non è affatto debellato e tende più di prima a colpire molto spesso piante di interesse agricolo, la sua comparsa in tali piante è un duro colpo alla produzione agricola e all’economia che ne comporta.  Ma andiamo per ordine.

Cos’è cosa la Xilella Fastiosa?

La Xylella fastidiosa è un batterio non sporigeno gram-negativo appartenente alla famiglia delle Xanthomonadaceae. Non sporigeno significa che, per diffondersi, si annida in alcuni insetti vettori, i quali acquisiscono l’agente patogeno da una pianta infetta e lo trasferiscono nelle piante sane, infettando quest’ultime. Xylella fastidiosa colpisce più di 150 tipologie di piante, molte di queste sono piante a scopo agricolo e ornamentale, come ad esempio l’olivo, gli agrumi e la quercia, per cui si cerca costantemente una cura efficace. La Xylella si instaura e si moltiplica nello xilema delle piante, ovvero nei vasi conduttori, formando una sorta di gel che ostruisce l’intero apparato conduttore della pianta, impedendo un adeguato  e regolare flusso di acqua e sali minerale. Per questo motivo, una sottospecie di questo batterio è l’agente patogeno causante la malattia CDO o CoDiRO, ovvero “complesso del disseccamento rapido dell’olivo”. L’ olivo infatti è una delle piante maggiormente colpite dal batterio xylella fastidiosa, per cui ancora non si trova una cura efficace.

Sono state trovate 4 sottospecie di questo batterio che si distinguono tra di loro dal punto di vista genetico e anche per la tipologie di piante che attaccano:

  • Xylella fastidiosa fastidiosa: ceppi causanti della malattia di Pierce della vite, ceppi da alfalfa, mandorlo, acero.
  • Xylella sandyi: ceppi causanti la bruciatura delle foglie di oleando(ceppi da oleandro,)
  • Xylella Multiplex: ceppi causanti del mal del pennacchio del pesco, inoltre è anche responsabile di alcune malattie dell’olmo, del platano, del susino, del mandorlo, di alcuni alberi ornamentali, del fossile vivente Ginkgo in Giappone e del mirto crespo;
  • Xylella Pauca: ceppi causanti di una serie di malattie che colpiscono gli agrumi e le piante di caffè e anche responsabili del CoDiRO (già accennato prima).

Questo agente patogeno è particolarmente pericoloso e i danni non si manifestano immediatamente, posso volerci delle settimane o addirittura degli anni, quindi l’entità dei danni e il tempo dipendono alla tipologia di pianta colpita. Quando Xylella colpisce una pianta le conseguenze possono essere varie, una delle più diffuse è il dissecamento della bruscatura se non addirittura l’intera pianta, oppure ne limita l’accrescimento di nuovi germogli e rami, o, ancora, comporta all’imbrunimento di alcuni strati interni del legno, anche i più giovani.

Essendo un agente patogeno letale e quasi senza cura, è considerato patogeno da quarantena e la sua segnalazione porta all’immediata eradicazione delle piante colpite, influenzando, per l’appunto, in maniera totalmente negativa l’economica agricola della zona colpita. Ed è proprio ciò che sta succedendo in questo periodo nel Salento. Le segnalazioni sono partite dal 2013, senza prove certe, riguardo il disseccamento degli olivi in questa zona, le quali piante hanno iniziato ad ammalarsi ed ad avere problemi già dal 2008, portano ad una drastica riduzione di produzione di olio d’oliva. Xylella influisce sulla quantità della produzione, non sulla qualità, la quale resta invariata, ma comunque il problema non è indifferente.L’olivo è tra le piante più colpite in Italia dalla xylella fastidiosa: si sta espandendo sempre di più a causa della mancanza di una cura. Si presuppone che gli insetti vettori della pauca, la sottospecie di xylella fastidiosa rivenuta negli olivi del Salento, siano arrivati fino al sud Italia sin dalla Costa Rica, dove se ne trova un ceppo gemello. Ma essi, da soli, non sarebbero mai arrivati. Quindi si pensa che l’unica spiegazione plausibile sia dovuto al commercio di piante ornamentali arrivate proprio dalla Costa Rica, essendo un produttore di piante ornamentali a livello mondiale. Inoltre, la presenza della Philaenus spumarius, detta anche “sputacchina”, agendo come vettore del batterio, avrebbe a sua volta contribuito alla sua diffusione. Inoltre, gli oliveti della Puglia, soprattutto più al sud, sono tutti poco distanziati gli uni dagli altri, favorendo il contagio.

Ma cosa è stato fatto in questi anni per contenere i danni e trovare una soluzione?

Con la Legge di Stabilità 2014, sono stati destinati 2.630.430 di euro per “misure urgenti per fronteggiare il rischio fitosanitario connesso al batterio Xylella fastidiosa”. Tale importo è stato impegnato a favore dell’Agenzia Regionale per le attività Irrigue e Forestali (ARIF) della Regione Puglia, di cui ad oggi, risulta liquidato, solo il primo anticipo previsto, pari a 1.315.215 di euro.

In un secondo momento, con il decreto legge 51/2015, sono stati accreditati alla Regione Puglia 9.785.291,35 euro, per indennizzare gli agricoltori colpiti da Xylella anche se ad oggi  non risultano attività intraprese dalla Regione in tale senso.

Attraverso il Piano olivicolo, inoltre, il Ministro delle politiche agricole di concerto con il Ministro dell’economia ha emanato una legge che destina per un triennio alla Regione Puglia 2.500.000 euro, per le attività di ricerca relative alla difesa da organismi nocivi nel settore olivicolo. Il 25 luglio 2016, la Commissione europea ha notificato al Governo italiano la costituzione in mora concernente le misure di protezione contro la diffusione del batterio “Xylella fastidiosa”, complementare a quella già avviata il 10 dicembre 2015, per la violazione del dovere di leale cooperazione, contestando, in particolare, la mancata eradicazione degli alberi infetti nei 20 km nella zona di contenimento e i ritardi nell’effettuazione del monitoraggio nelle aree interessate.
“Per far fronte alle carenze evidenziate la Regione Puglia ha provveduto alla selezione e al reclutamento di ulteriori 172 tecnici (agenti fitosanitari), al fine di incrementare le attività di monitoraggio delle aree demarcate”.
Nel mese di novembre 2016, la Commissione ha condotto un audit in Puglia per verificare sul campo la situazione del focolaio di Xylella fastidiosa e la corretta attuazione delle misure fitosanitarie di lotta alla batteriosi, in conformità alla decisione dell’Unione Europea. Il gruppo ispettivo della Commissione Ue, ha considerato positivo il monitoraggio messo in atto dalla Regione e la ripresa delle eradicazione (a seguito dei blocchi amministrativi e penali) perché in linea con le disposizioni UE.

Per dirla in breve il lavori di questi anni si è limitato con la messa in quarantena dell’ area colpita e l’ abbattimento delle piante infette. Nel mentre si è dato impulso alla ricerca di una soluzione del problema.

La seconda operazione altrettanto penalizzante è stata a partire dal 2015, la decisione di esecuzione della normativa (UE) 2015/789 consistente nella restrizione alla movimentazione delle piante probabili ospiti del batterio e nel 2016  specificate limitazioni sono state imposte alle esportazioni nazionali di materiale vivaistico ancora in essere da parte di alcuni Paesi.

Salento – Piante infette dalla Xylella fastidiosa

Sebbene questi interventi hanno rallentato la diffusione del patogeno di fatto la messa in quarantena dell’ area colpita non è stata sufficiente e i danni per il comparto olivicolo ingentissimi tanto che attualmente ad Oria e a Gallipoli ettari ed ettari di terre, che prima ospitavano centinaia di olivi, si stanno spopolando: non essendoci una cura, è abbattere li alberi rimane  l’unico modo per evitare di ”infettare” altre zone. Focolai d’infezione sembrano poi spuntare in altre parti della Puglia e la ricerca scientifica alla luce della modalità con cui la  xylella fastidiosa si trasmette hanno ormai fatto accantonare qualsiasi speranza di eradicazione del batterio, facendo così concentrare gli sforzi sulle azioni di contenimento e sulla ricerca di soluzioni che consentano una convivenza sostenibile con la pericolosa infezione. Ed è proprio grazie a questi sforzi che oggi per l’olivicoltura salentina si apre uno spiraglio di rinascita grazie alle sperimentazioni che hanno portato a scoprire varietà di ulivi in grado di tollerare abbastanza bene la xylella. L’ultimo studio riguarda la “favolosa”, (in gergo tecnico si chiama “FS-17”), un olivo che, secondo quanto svela il Cnr di Bari e il Centro di ricerca “Basile Caramia” pare metta in difficoltà il batterio, addirittura meglio del “leccino”, l’altra specie olivicola su cui si sono concentrate le ultime sperimentazioni  che pure sembra tollerare la malattia.

La ricerca condotta dal CNR  firmata da più di 30 studiosi dimostra soprattutto come la cultivar “favolosa” presenti una carica batterica bassissima o addirittura inesistente. Un risultato che incoraggia i ricercatori. Nello stesso studio anche altre analisi sul “leccino” condotte in alcuni oliveti del Salento. «I risultati che continuano a emergere dalle osservazioni in campo e dalle indagini diagnostiche – sottolineano i ricercatori nello studio – fanno ben sperare circa una possibile convivenza con il batterio». Il lavoro, parzialmente finanziato dal programma Ue di ricerca e innovazione Horizon 2020, nell’ambito dei progetti “POnTE” e “XF-Actors”, scaturisce dalle attività sperimentali condotte da tre Istituti di ricerca pugliesi in collaborazione con l’agronomo Giovanni Melcarne ed altri soggetti del mondo agricolo.

Grazie alle analisi sierologiche (Elisa) e molecolari quantitative (qPCR), condotte su diverse centinaia di piante in oliveti multivarietali sottoposti a fortissima pressione di inoculo in zona infetta, il Cnr svela che la cultivar “FS-17”, oltre che essere asintomatica presenta una minore incidenza percentuale di piante infette (appena il 12% di piante infette rispetto al 50% in “leccino” e 100% in “ogliarola salentina”); inoltre, quando infetta, ha la più bassa concentrazione batterica poiché nelle piante analizzate è stata ritrovata, in media, la metà della concentrazione di “leccino” e circa un centesimo della concentrazione in “ogliarola salentina”. Tutte le 10 piante di “ogliarola” sono risultate positive alla xylella, anche l 177 piante di “kalamata” hanno mostrato un elevato valore percentuale di positivi (70%). Soltanto 9 delle 18 piante di “leccino” analizzate sono risultate positive al batterio, mentre sorprendenti i risultati sulle piante di “FS-17”: solo il 12,4% delle 201 piante saggiate è risultato positivo con valori di assorbenza media più bassi di quelli del “leccino”.

La Provola dei Nebrodi

Cari Amici! In questa puntata di Blog voglio addentrarmi nel mondo dei formaggi siciliani e nello specifico in questo ambito parlare della Provola dei Nebrodi o Caciocavallo. Per  fare ciò mi affiderò alle conoscenze trasmesseci dal “ Manuale Teorico Pratico d’ Agricoltura e Pastorizia” del Sac. Gaetano Salamone, andata alle stampe per la prima volta a Mistretta nel 1872 e ad oggi una preziosissima testimonianza della  tradizionale tecnica di lavorazione di questo singolare formaggio a pasta filata.

La provola dei Nebrodi

Eccovi diseguito il paragrafo relativo al caciocavallo o provola dei Nebrodi:

“La Provola dei Nebrodi “ Si fa dal latte di vacca o capra mescolato al quello della vacca, ed anco solo: ma i migliore si cava dal latte di vacca.

Quando vorrà farsi caciocavallo, il latte quagliato nel modo sopradetto si rompe con un lungo bastone, alla cui estremità vi è attaccata una ruota di legno circolare piana o convesso-concava, del diametro d’un palmo più o meno, secondo la quantità della quagliata e la grandezza della tina, il quale ordegno si chiama (ruotola) e si dibatte e si rimena tanto, finchè la massa prenda nuovamente l’ aspetto quasi di latte, e tanto meglio riesce; quanto più si fatca. Ciò fatto si lascia riposare un 6, o 10 minuti, nel qual tempo la parte caseosa, ridotta in una massa bianca, detta (tuma) si precipita nel fondo e la parte sierosa, detta (lacciata) salisce sopra.  Allora il cascinaio detto (summataru) comincia a premerla con la rotola per viepiù consolidarsi ed i giovani con piccoli vasi di legno aventi la figura d’un cono troncato con l’ altezza ed il diametro di circa un palmo nel vuoto interno, detti (scischi) prendono la lacciata dalla tina e la mettono entro la caldaia di rame per fare la ricotta. Levata tutta la lacciata mettono scisce piene d’ acqua, o altri pesi sopra la tuma per asciugarsi maggiormente e consolidarsi, raccogliendo sempre la lacciata che esce da detta tuma. Ridotta a tale stato si taglia in 2,3 o 4 pezzi secondo la quantità, si esce dalla tina e si mette entro un tavolone largo da 4 a 5 palmi, lungo da 5 in 6, alto ne’ suoi labri poco meno di 2 decimetri detto tavuliere. Ivi si taglia a strisce larghe circa 4 dita e si mette di nuovo entro la tina. Siccome fra questo mentre si è fatta la ricotta nel modo che saremo per dire appresso, si mette nella tina tanto siero bollente, quanto sopravanza 4 dita sopra le strisce della tuma e si lascia concuocere finchè il siero si raffreddi astato di potervi soffrire la mano.

Il caciocavallo prende il nome dalla tradizionale maniera di conservazione su travette

Allora si esce nuovamente la tuma dalla tina, si mette nel tavoliere, si liscia con le mani e si preme per ispogliarla da siero e bene asciuttata, s’è tempo d’inverno, si mette sopra una tela e si coverta, s’è tempo d’ estate, si sospende ad un legno, e si tratiene in tale stato per lo spazio di 12, 18 o 24 ore finchè s’avveri la fermentazione acida. Quando è già lievitata si taglia a strisce della grossezza di un pollice e si mette entro una tina del diametro ed altezza di circa tre palmi, detta (piddiaturi), si coverta nuovamente con siero bollente sino a due dita sopra e si tiene coverta per lo spazio di 8 minuti circa per ammollirsi ben bene. Dopo con un legno lungo  5 palmi circa detto ( manuvedda) si fatica, preme e rivolta in tutti i versi, dicono essi (si scana) come si fa con la pasta, per lo spazio d’un mezzo quarto, finchè si riduce ad unica massa. Ciò fatto si pone tutta la massa sopra al manuvedda sostenuta da due persone ed altre due la lisciano con le mani, rivoltandola sopra se stessa nel caso che per eccessiva mollezza s’ allunga di troppo.

Avendola lisciata bene e ridotta in un’unica massa, colle mani si fa in pezzi tanto grandi quanto i caciocavalli che si vogliono fare e di nuovo si mettono dentro il siero ancor caldo che si trova dentro la piccola tina detta piddiatturi. A’caciocavalli sogliono darsi due forme conosciute, credo,da tutti i Siciliani, una a parallelepipedo rettangolare, cioè a quattro facce, larga circa un decimetro e lunghe  circa 4 decimetri e più o meno a piacere di chi la ordina; e l’ altra a (provole) le quali hanno una figura di una gran pera del peso d’un chilogrammo circa. Quelli a 4 facce si fanno sopra un tavolo coi labri rialzati d’un decimetro, detto tavuletta ed una forma di legno simile al casca callo che dovrà farsi. Ordinate tali cose, persone pratiche prendono un pezzo di tuma da dentro il piddiaturi e stringendola nelle mani le danno la forma che si da al pane pria di metterlo nel letto, asciugandolo bene dal siero, gli recidono il piccolo collo che si era formato e in tal forma la mettono posata  a un lato della tavoletta m rovesciata sul lato donde  si strappò il collo e mettono la forma del legno dall’ altro lato. Egli così posto comincia a dilungarsi e mentre il cascinaio (sammataru) ne fatica altri, un giovane lo rivolta e gli appoggia al fianco la forma di legno, finchè prende la forma del parallelepipedo. Questo fra pochi minuti s’indura e serve di lato per dar forma agli altri. Terminata in tal modo lì operazione, si lasciano ivi 24 ore rivoltandoli quando vi è bisogno e dopo si mettono per 48 ore dentro la salamoia preparata in un barile.

Sac. Gaetano Salamone

Le provole si manipolano pure con le mani, dandovi la forma d’una pera e subito si mettono entro la salamoia per 24 ore per addensarsi, altrimenti la forma si schiaccia.

Siccome queste sono più leggere dell’ acqua salata, un giovane continuamente per circa un ora o due ore con una fiscella deve affondare e rivoltare, finchè si saziano da per tutto di salamoia. Dipoi si levano dalla salamoia e legate con una cordellina grossetta di qualunque materia, si sospendono ad un travicello, ove fra lo spazio di circa 8 giorni prendono un colore gialliccio. Allora si mettono nuovamente per altri 24 ore circa entro alla salamoia e più o meno secondo la grandezza e sospese ad un travicello, si conservano all’ uso.

A 6 mesi si induriscono troppo: per conservarsi molli, bisogna untarle di olio di lino, o meglio d’un cemento composto di feccia d’olio comune e di rottami di tegole mediocremente pestate o pure dentro l’olio, ma rancidiscono un poco.

Più volte entro le provole nel manipolarle s’introduce un poco di butiro per mantenerle più umili e d essere un poco più grate a mangiare; ciò per lusso non per mercanzia”.

 

Il Manuale Teorico Pratico d’ Agricoltura Vol. I

del Sac. Gaetano Salamone

Rivistato ed aggiornato dal Dr. Benedetto Salamone

Pagine: 343
Formato: 140×205 mm
Genere: Ambiente e Natura
Collana: TiPubblica
Anno: 2017
ISBN: 978-88-488-1888-9
Lingua: ITALIANO Tags:

16,10 (Iva  Inclusa) Spedizione Gratuita

 

Descrizione

Divisa per esigenze pratiche in due volumi, la presente opera è di indiscusso pregio. Messa alle stampe la prima volta nel 1870,è il frutto di un meticoloso lavoro che il Rev. Sac. Gaetano Salamone condusse per circa due anni, e volto a fornire ad un pubblico non molto erudito le nozioni basilari di scienze agrarie con un attenzione particolare al distretto di Mistretta. Una ristampa dell’ opera è utile per la riscoperta di antiche pratiche agronomiche che oggi definiremmo ecosostenibili. Colmando, tramite note aggiuntive tutte le lacune cognitive sulla scienza agraria le opera oltre che di valore storico-scientifico è inoltre di uso pratico, in ultimo serve dare un nuovo impulso agli studi agronomici in aree geograficamente svantaggiate

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Il Cavallo Siciliano Indigeno

di Benedetto Salamone

 

Pagine: 226

Formato: 140×205 mm

Genere: Ambiente e Natura
Collana: TiPubblica
Anno: 2013
ISBN: 978-88-488-1464-5
Lingua: ITALIANOTags:

€ 16,00 ( Iva Inclusa)   spedizione gratuita

Descrizione

L’opera illustra le vicende storiche di una razza cavallina tra le più antiche e prestigiose d’Italia, dal suo sorgere fino ad i nostri giorni. Una narrazione avvincente ed inedita scritta dall’autore con la passione e la pazienza di chi ama la ricerca. Un saggio storico-scentifico che accompagna il lettore nella storia della Sicilia attraverso un disamina accurata delle fasi più importanti nella formazione costituzionale del cavallo siciliano, ma anche un opera zootecnica di grande spessore non priva di interessanti spunti per il presente. Un ringraziamento particolare è rivolto a Placido Salamone di Casaleni per la collaborazione offerta.

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19 Marzo – San Giuseppe

In Sicilia il 19 marzo non è un giorno come tanti altri. Attraverso una  ritualità cristiana e precristiana la festa di San Giuseppe esprime pienamente uno degli aspetti più profondi della tradizione del popolo siciliano e della sua millenaria cultura. Prendendo spunto dall’ opera di Gaetano Basile e Anna Maria Musco Dominici “Mangiare in Festa” edito da Kalos, vi voglio illustrare cosa significa il giorno di San Giuseppe in Sicilia, patrono di molti comuni siciliani forse perché nella tradizione popolare riveste il ruolo di “avvocato dell’ impossibile”. E noi siciliani di avvocati per cause difficili ne abbiamo sempre vavuto bisogno.

Ci ricorda Giuseppe Pitrè che “… dei Santi il più apprezzato patrono è San Giuseppe che occupa tredici comuni”. E come “patri di puvirieddi” viene invocato nei Triunfi; fino agli anni Sessanta si celebravano messe e novene ogni mercoledì a partire da gennaio.

Il suo culto si manifesta con usanze rituali quali il banchetto, gli altari addobbati, la raccolta di elemosine e le processioni. L’ uso di mense su altari particolari è diffuso in tutti i paesi cattolici dell’ area del bacino del Mediterraneo: il cibo, simbolico e rituale, è offerto in una specie di cappelletta ricoperta di rami d’ alloro e mirto, decorata con piccoli pani, detti appunto “di San Giuseppe” legati da cordicelle colorate.

Quest’ uso continua in molti comuni siciliani così come la questua, che è atto di penitenza o di umiliazione, spesso per grazia ricevuta. Una volta tutto ciò che veniva raccolto per le elemosine si portava in giro cin la “retina”, una lunga teoria di muli  e asini riccamente bardati. Le cene si offrono a figuranti che rappresentano Gesù,Maria, e Giuseppe, pellegrini affamati di passaggio. Ma anche a  “poveri vecchietti” normalmente affidati alla pubblica carità. Almeno per quel giorno.

Vale a pena ricordare che le cene votive dovevano avere un minimo di 19 portate e fino ad un massimo di 101. Nessuno si è mai spiegato quel 19 e 101 che certamente dovevano pur significare qualcosa forse attinente alla cabala.

Infatti le siciliana cene di San Giuseppe discendono direttamente dalla festa ebraica di “Succòth”, cioè la festa delle capanne, detta anche festa dei tabernacoli. Si ricordano così le capanne erette dagli ebrei vaganti nel deserto per ben quarant’anni, dopo la biblica fuga dall’ Egitto.. Anche gli ebrei di Sicilia celebravano quella loro antica con cene di ringraziamento per sette sere di fila con tavole ricche di cibo e dolciumi.

La loro alimentazione obbediva alle leggi della Kasherut, purezza rituale dei cibi, vhe traeva origine da motivazioni igieniche; non si mangiavano  carni di animali morti per cause naturali, incidentali o ancora non note e che, quindi, potevano portare malattie. La carne fu quasi sempre quella di ovini, caprini e tanto pollame. Era assolutamente proibito l’ uso della sugna, strutto o sego e si usava solo l’olio d’oliva.

Le minestre occupavano un posto di primaria importanza: ceci, lenticchie e cavoli, soprattutto. Tante verdure cotte servite calde con un filo d’olio oppure crude in insalata. Zucchini, cipolle e porri fritti impanati o in pastella, uova sode oppure in frittata di cipolle. Trionfano le polpettine fritte, le melanzane fritte affettate o intere ma anche farcite dei carne e spezie.

Il pesce per essere Kasher doveva avere le pinne e le squame. Per conseguenza niente anguille, molluschi e crostacei, con la sola eccezione dell’ aragosta. Latte e formaggi per prescrizione talmudica, dovevano essere serviti in apposite stoviglie.

Ogni quindici giorni si faceva il pane di farina di frumento. I pan ricoperti di sesamo,erano mandati dalla famiglia del futuro sposo ai consuoceri per allontanare il malocchio.

San Giuseppe è poi il giorno delle “Vampe” che derivano quasi certamente dalle feste del fuoco legate al primordiale culto solare.

Quei falò dovevano assicurare nuova luce e calore a uomini, animali e piante, di contro la distruzione di tutti gli elementi corruttivi e negativi. E’ assai curioso che questa ritualità coincida all’incirca con  l’ equinozio di primavera quando il giorno dura quasi quanto la notte. Poco più tardi la luce del sole avrà il soppravvento sulle tenebre e quei fuochi davano una mano al sole nella lotta contro le tenebre.

 

Dai totani ripieni ai tagliolini neri al sugo di gallinella

Cari Amici!

Molto presto torneremo a parlare del pescato di Tusa e della sua tradizione marinara. Per adesso gustatevi questa ricetta.

Un appuntamento culinario interessantissimo in compagnia dello chef Mario Di Vita, presidente dell’ Associazione Cuochi Valle dell’ Halaesa-Nebrodi e chef del Tus’Hotel, rinomato quattro stelle della ormai celeberrima riviera halaesina. Protagonista di oggi, ovviamente il pesce di stagione, freschissimo ed elemento principe del nostro menu che andiamo a presentare in questo scenario suggestivo della torre trecentesca del Castello di San Giorgio e che troverete nel menu del Tus’ Hotel.

Il primo piatto che proponiamo sono i totani ripieni, un classico della cucina siciliana. I totani, le cui proprietà organolettiche risultano benefiche per il nostro sistema nervoso centrale, sono alla base di questa ricetta  gustosissima e sostanzialmente facile da preparare, il cui ripieno risulta rigorosamente fedele alla tradizione a base di pinoli, mandole, pomodorini  e pane raffermo.

Ma ancora più originale è la ricetta dei tagliolini neri il cui sapore e colore inconfondibile dato dalla seppia crea un impatto visivo notevole insieme al sugo del pesce gallinella tagliato a tocchetti insieme a pomodorini, prezzemolo e brodo vegetale. Insomma!Una ricetta da leccarsi i baffi.

Per chiudere  il pescato del giorno a base di pettini, merluzzi e ricciole, infarinati e fritti a dovere con olio extravergine d’oliva. Non resta che seguire il nostro video e seguire i consigli dello chef.

Buona Visione!!!