L’Intraprendente

IL MESTIERE DEL PASTORE

Nonostante tanti pregiudizi il mestiere del pastore bisogna conoscerlo. Ovunque vi troviate, indifferentemente da quanti animali si possiedono, gli occhi di un pastore sono quelli fieri di chi ha deciso di non barattare la propria libertà per qualsiasi denaro. Eppure il lavoro e molto duro, più di quanto vi immaginiate, perché il gregge lavora da solo ma in in montagna può sopravvivere soltanto grazie al pastore  che è sempre lì a sorvegliare, a guardare, a chiamare, spostare il gregge, mandare il cane.

Certamente bisogna fare una distinzione tra l’alpeggio e la pianura. Sui monti, le pecore potrebbero anche rimanere da sole, se non ci fosse il pericolo dei lupi. Anzi,per dirla tutta sono gli stessi  pastori per primi a dire che le pecore erano più belle una volta, quando venivano lasciate libere e non  rinchiuse nel recinto e la sera pascolavano quando ne avevano voglia, magari anche di notte.

Tuttavia se non ci fosse il pastore a spostare il gregge quando l’erba scarseggia, le pecore sarebbero “abbandonate” a se stesse, finirebbero per radunarsi sulla cresta, in alto, dove non sempre c’è molto da mangiare. Invece lui le guida, decide dove si va al pascolo giorno dopo giorno, cerca di evitare le zone più pericolose per la caduta dei sassi. Sa quando è necessario mandare il cane per farle girare e dove invece quest’operazione è controproducente, perché un brusco mutare di direzione degli animali può portare ad ulteriori cadute di pietre, o a far ammucchiare le bestie. Decide quand’è ora di salire più in alto, quando invece si scende. Fa pascolare a fondo, senza sprecare erba, senza rovinare il cotico erboso. …il buon pastore… non tutti però hanno la stessa esperienza, la stessa professionalità! Ma essere pastori non è solo andare al pascolo, ma anche esperienza ed abilità soprattutto in quei mesi come l’autunno e l’inverno detti appunto “della fame d’erba”, quando non sempre sai dove portare i tuoi animali affinché si sfamino. Saper scegliere il percorso, sapere se è meglio pascolare un prato al mattino, una stoppia al pomeriggio. Valutare il foraggio, perchè basta poco, un errore del pastore, e gli animali gonfiano a causa del troppo mais o dell’erba medica, o di qualche altra erba di cui hanno fatto indigestione.

Attraverso il filmato realizzato da Micol Cossali e dalla sua eccezionale equipe, vi proponiamo un documentario unico ed una testimonianza di grande valore che vi invitiamo a guardare.

L’ abilità consiste anche nel saper decidere quando spostarsi, sapersi muovere in uno spazio ristretto, senzai ovviamente danneggiare nessuno, così a volte è necessario tirare centinaia di metri di reti, solo per far passare il gregge a fianco di un campo di grano. Appena uscite dal recinto, affamate, difficilmente le bestie resisterebbero al richiamo di quel verde tenero.

La pazienza e poi l’ altra virtù del pastore che non deve avere fretta ed attendere che gli animali si sazino. Concedere loro il tempo per pascolare, per ruminare, aspettare che il caldo diminuisca in primavera o in estate, per poi riprendere a piegare la testa sull’erba. Attendere nonostante il vento, la pioggia, il freddo. Scegliere in base alle esigenze degli animali, e non a quelle dell’uomo. Ma è comunque il pastore che sa, che indirizza. Tanto è vero che quando una o più pecore restano fuori dal gregge per qualche motivo, nel momento in cui vengono recuperate sono “vuote” cioè non gravide perchè non hanno pascolato a sufficienza. Non esiste l’orologio, ma solo le pecore. Perchè sono loro a farti capire se è ora di andare nel recinto, oppure si continua a pascolare anche dopo il tramonto. E’ facile dire che in questo modo si gode di paesaggi e vedute che ormai sono precluse ai più, che passano la giornata al chiuso, oppure in quei momenti sono in auto, nervosi, nel traffico. Fare il pastore invece è difficile, qualche volta la passione non basta perché è un mestiere fatto di alti e bassi, di momenti fruttuosi ed altri di stallo. Bisogna vivere accanto ad uno di loro per comprendere che essi sono i custodi del nostro patrimonio silvo pastorale oggi colpito da una profonda crisi senza precedenti.

 

L’ ULTIMO DEI CARBONAI DI SICILIA

Cari Amici

 Eccoci ad una nuova puntata dell’ “Intraprendente”, alla scoperta questa volta dell’ antichissimo mestiere del carbonaio. Attraverso le riprese di Alessandro Savarese e Daniele Nucara impareremo l’ arte di fare il carbone seguendo nel quotidiano lavoro   uno degli ultimi carbonai di Sicilia. Vincenzo Guadagna di Tusa.

La produzione del carbone vegetale è qualcosa di antichissimo, un mestiere diffuso in Italia ed in Sicilia fino alla metà del secolo scorso nelle località di montagna e di collina li dove abbondava il  legno. In particolare i legni di leccio, di sughero e d’ulivo da sempre sono stati considerati più indicati. La fase preparatoria inizia con la raccolta del legname  che viene scortecciato e tagliato a tronchetti ora  lunghi un metro ora più piccoli che serviranno per la creazione del castello o “fossone” come si dice in Sicilia. Quindi su uno spiazzo generalmente di 20 m2 si procede ad accatastare  i pezzi di legna più piccoli orizzontalmente e su questi si accatastano tutto attorno i tronchi da un metro, formando un cono a cupola in cui inizialmente si apre un comignolo; mentre ai piedi  si costruisce una un piccolo foro per consentire dopo l’ accensione la circolazione dall’esterno all’interno della quantità di aria idonea ad assicurare la giusta cottura. Si ricopre quindi il resto con fogliame tenuto fermo con dei bastoni e si aggiunge uno strato di terra per impedire il contatto diretto dell’aria con la massa legnosa.

La tecnica che si utilizza è molto semplice e consiste che permette di togliere la quantità corretta di ossigeno al processo di combustione della legna, in modo da evitare da una parte che il fuoco si spenga e dall’altra, che il fuoco prenda vigore e bruci la catasta di legna.

Al carbonaio vengo poste poi delle pietre tutt’a torno e questo processo viene detto “muratura del fossone”  procedendo  quindi  ad accendere il fuoco. Prima però ci si assicura con un lungo bastone di legno la circolazione dell’ ossigeno che alimenta il fuoco tramite il foro precedentemente creato. Non appena il fuoco comincia a salire, si chiude il comignolo precedentemente aperto e sui lati del castello si aprono piccoli fori per innescare la combustione

Lentamente, alimentato, il fuoco inizia il processo di carbonizzazione dei legni. Dopo alcune ore inizia la fase della battitura del fossone tramite una grande pala chiamata “sciamarro”. Questo processo serve a ridimenzionare  la carbonaia e rallentare la combustione dei legni. Trascorso un giorno si procede a “dare a mangiare, al fossone” ossia si apre il comignolo e si butta legna all’interno.

Ci vogliono tre giorni prima che si proceda alla sfossatura, togliendo prima le pietre e poi estraendo i pezzi di carbone che appena caldi si buttano in acqua per un rapido raffreddamento e pronti per essere successivamente insaccati.

Nelle carbonaie in media si accatastano in genere dai 30 ai 40 quintali di legna da cui si ricavano dai 6 agli 8 quintali di carbone.

L’ARTE DI FARE IL SAPONE NATURALE

Eccoci ad una nuova interessante avventura!

Questa volta parleremo del sapone e dell’ arte saponiera, antica come l’utilizzo di questo importante tensioattivo la cui funzione  oltre quella di pulizia è divenuta nel tempo anche quella del decoro.

Grazie all’ equipe del Laboratorio artistico “La Torre dell’ arte e del Gusto – Gruppo Salamone” e la consulenza del Dr. Rosario Piazza, analista chimico, scopriremo cos’è il sapone chimicamente e seguiremo passo passo le fasi di realizzazione, prima però procedendo ad un excursus storico sull’ arte saponiera dalle origini fino ad i nostri giorni, alla scoperta del sapone di Aleppo e quello di Marsiglia e Castiglia.

Guardate questo interessante video! Non vi deluderà!

Buona visione!!

LA BACHICOLTURA DEI NEBRODI

Cari AMICI,

Benvenuti al primo appuntamento dell’ Intraprendente dove andremo alla scoperta di una nobile arte purtroppo oggi in disuso nel nostro territorio . La bachicoltura.

Per fare ciò è necessario da subito dire che l’ allevamento del baco da seta richiede come presupposto di base la coltivazione del gelso bianco dalle cui foglie questo verme ricava il nutrimento

In questo video potrete cogliere alcuni interessanti spunti su questa nobilissima arte.

Scoperto da Marco Polo nel 1271 in Cina, dove egli si era recato per conoscere l’Oriente ed istaurare stabili rapporti amichevoli con il Gran Khan, il gelso bianco (morus alba) è un genere di piante della famiglia delle moracee giunto dall’Asia, ma bene presto diffusosi in tutta l’Europa. Le foglie sono caduche, alterne, di forma ovale o a base cordata con margine dentato. Le principali specie conosciute e rinvenibili in Italia  sono il Gelso bianco e il Gelso nero (Morus nigra) di antichissima memoria.

Il frutto del gelso bianco è carnoso di colore giallo pallido e dal  sapore dolciastro  e matura tra giugno  e  luglio.  I frutti del gelso vengono considerati lassativi. Per l’elevato contenuto di zuccheri (22%) diverse popolazioni asiatiche li utilizzavano come edulcoranti, sia freschi sia secchi, o ridotti in farina. Per fermentazione è poi possibile ricavare una bevanda alcolica; mentre  i legno era usato per fare attrezzi e piccoli lavori di intarsio.

Si narra che la nascita della bachicoltura si deve all’imperatrice cinese Xi Ling Shi, ma probabilmente la lavorazione della seta si conosceva in Cina già nel 3000 a.C.. Le vesti di seta che erano riservate agli imperatori cinesi entrarono a far parte del guardaroba della classe sociale più ricca, diventando un bene di lusso. Gli imperatori cinesi si sforzarono di mantenere segreta la conoscenza della sericoltura, tuttavia gli allevatori cinesi iniziarono a spostarsi in Giappone, Corea e India. Ne nacque cosi un intenso traffico anche con l’Occidente.

In Europa, sebbene l’Impero romano conoscesse e apprezzasse la seta, la sericoltura ebbe inizio solo intorno al 550 d.C., attraverso l’Impero bizantino; la leggenda narra che monaci basiliani agli ordini dell’imperatore Giustiniano furono i primi a portare a Costantinopoli delle uova di baco da seta nascoste nel cavo di alcune canne

In Sicilia  fu Re Ruggero II d’ Altavilla ad introdurre l’albero del gelso bianco e ad incoraggiare la bachicoltura tanto da rendere la Sicilia il principale esportatore di seta d’Europa. Palermo e Messina furono nel ‘300 le principali produttrici europee di seta. In particolare a Messina quest’attività fiorì grazie alla comunità ebraica  che avevano il monopolio di questo commercio  e grazie alle  particolari agevolazioni del  governo spagnolo che  nel XVI secolo, riuscì a far riprendere rilevanza economica a questa attività in cui nel Seicento si teneva un importante fiera . nel 1517, la regina Giovanna II d’Angiò, Regina di Sicilia, accordò ai Messinesi il privilegio di esportare la seta a Cagliari e a Siviglia. Successivamente, Filippo IV stabilì addirittura che tutta la seta siciliana fosse esportata dal porto di Messina. Nel 1530 Carlo V concesse ai Messinesi i “Capitoli della Seta”, un’importante regolamentazione del processo produttivo della seta, gestita in stretto rapporto con il Tribunale del Real Patrimonio dai Consoli dell’arte, autorizzati ad effettuare ispezioni. Nel 1591 il napoletano Alfonso Crivella, giunto in Sicilia per un’ispezione, nota che “il Val Demone più dell’altri Valli, et in particolare la città di Messina e suoi Casali sono abbondantissimi di seta”.

In verità in tutta la Valdemone si produceva seta in abbondanza e l’area dei Nebrodi non era da meno. Nel ‘500 la coltura prevalente nelle contrade prossime all’abitato di Castel di Lucio era quella del gelso bianco e la produzione della seta rappresentò l’attività preminente di molte famiglie come quella del nobile Ottaviano La Mammana. Anche  il Duca di Camastra nel ‘600 favorì l’allevamento del baco da seta tanto che come gita il Sac. Gaetano Salamone del XIX° sec  il territorio di Santo Stefano disponeva di  2 ettari di gelseto che producevano 64 quintali di foglie per  ettaro ed 8 once di bachi. Decisamente più significativa era la produzione della seta nel versante orientale dei Nebrodi. Nella Valle di Fitalia dove la particolare ricchezza di sorgenti la rende adatta a questa pratica, la bachicoltura rappresentò fino alla seconda guerra mondiale una delle principali fonti di reddito per l’economia domestica soprattutto nei comuni di Mirto e Castanea. Lo stesso dicasi per Sant’Angelo di Brolo ed ancora oltre per i comuni della Fiumara di Naso tra cui compare anche Ficarra.

A Ficarra, ancora verso la fine del ’700, gran parte della popolazione si dedicava alla produzione ed al commercio della “Seta” e talvolta si vendevano i “bozzoli” e la seta grezza. Fino fine alla fine degli anni ’40 numerose erano le “filande” ed i “gelseti” presenti nel territorio ficarrese, oggi resta ben poco.

Tuttavia  negli ultimi anni un tentativo di recupero è stato fatto. Per iniziativa del Comune è nata infatti la Casa del Baco. A scopo puramente didattico e turistico  il progetto mira a tenere acceso il ricordo di questa tradizione perpetuata dalla memoria degli anziani come la signora Giuseppina Rifici, fino a qualche anno fa l’ultima filandiera di Sicilia la cui esperienza è testimoniata da un intervista di grande valore realizzata dal Sig. Franco Tumeo e che vi riproponiamo nel nostro video sulla Bachicoltura dei Nebrodi.

Vediamo adesso il ciclo vitale del baco da seta:

Il baco durante il suo breve ciclo vitale( circa 60 giorni), subisce varie trasformazioni. Le uova vengono deposte dalla farfalla, che subito dopo morirà, nel mese di giugno. Dopo essere state conservate per tutto il periodo invernale in appositi refrigeratori, vengono messe in incubazione in locali che abbiano una temperatura costante di circa 25°C, umidità e luce necessarie per la schiusa; in modo da far coincidere la nascita e lo sviluppo della larva con il periodo di fioritura e crescita delle foglie del gelso. L’incubazione dura circa 20 giorni. Le uova hanno forma di grani ovali, di colore biancastro-giallino dette anche seme-bachi quindi in primavera si schiudono generando minuscoli bacolini.

La larva, che alla nascita è lunga appena 3 mm e pesa 1-2 mg, diventa nel giro di un mese lunga 10 cm, aumentando il suo peso di circa 8000 volte.

La dieta del baco da seta è costituita esclusivamente dalle foglie del gelso. Particolarmente adatto all’allevamento del baco da seta è il gelso bianco (morus alba) che possiede foglie di diverso tipo. Il baco da seta vive da 28 a 38 giorni. Durante lo stadio della crescita, cambia il tipo d’alimentazione. Prima si nutre soltanto di foglie di gelso tenere, poi di quelle mature. Esso viene alimentato su speciali graticci di legno, all’interno

dei quali vi sono delle reti. Nei vari stadi della crescita vengono adagiati in diverse sezioni. La vita del baco è suddivisa in cinque stadi di età e di sviluppo. Dopo ogni stadio il baco compie una muta per una rapida crescita.

Al termine del quinto stadio, dopo aver raggiunto la massima grandezza, il baco non si nutre più, perciò vengono eliminate le foglie di gelso e si cerca un posto tranquillo per consentirgli di costruire il bozzolo. In bachicoltura questa fase viene denominata “salita al bosco” perché il luogo è costituito da rami di gelso, quercia, olmo (e oggi anche in plastica per avere un notevole risparmio), su cui i bachi cominciano subito a “salire”, per filare la loro seta. Esso emette bavelle che formano un filo continuo, inizia la produzione del bozzolo, all’interno del quale si trasformerà in crisalide e successivamente in farfalla. Il bozzolo è pronto dopo 4 o 5 giorni. Espellendo la bava, il baco da seta ha perso più della metà del suo peso. Dopo 15 giorni la farfalla è pronta.

La farfalla, se non avviene la stufatura che uccide la crisalide, buca il bozzolo, impedendone l’utilizzazione per la lavorazione della seta, e provvede alla deposizione delle uova(da 300 a 500) nei restanti 10 giorni di vita.