NaturaLabor

Dr. Salvatore Ceccarelli
Salvatore Ceccarelli è il genetista italiano di fama internazionale che, da molti anni, pratica la ricerca scientifica partecipata, coinvolgendo direttamente gli agricoltori in vari Paesi: Giordania, Siria, Iran, Egitto, Algeria, Eritrea, Etiopia, Yemen.

 Quello che non si dice a proposito degli OGM

 

del Dr. Salvatore Ceccarelli

 

Geni estranei sono stati introdotti per la prima volta con successo nelle piante 30 anni fa (1). Da allora, le colture geneticamente modificate (GM) hanno promesso di creare una seconda rivoluzione verde: una dovizia di cibi nutrienti, carburanti e fibre che potrebbero fornire cibo a chi ne ha bisogno, generare profitti per gli agricoltori e promuovere un ambiente più verde (2).

I realtà da una parte molti mettono in dubbio gli aumenti produttivi (3, 4), e dall’altra l’evoluzione della resistenza dei parassiti (ad esempio la resistenza all’erbicida Roundup di una infestante del cotone GM negli Stati Uniti (5), l’evoluzione della resistenza della diabrotica al mais GM (6), e l’aumento degli insetti non-target ad esempio l’infestazione diffusa di Miridi in Cina dopo l’introduzione del cotone GM (7)) ha mostrato il lato debole degli OGM.

La principale debolezza degli OGM, che è la stessa debolezza delle varietà prodotte con metodi convenzionali e che portano un singolo gene di resistenza ad un parassita specifico (malattia, insetto o infestante), è che essi ignorano un principio biologico fondamentale. Per spiegare questo principio dobbiamo ricordare due cose. In primo luogo, che i funghi che causano malattie, gli insetti che mangiano le nostre colture e le infestanti che con loro competono, sono tutti organismi viventi e, come tali, sono variabili, si riproducono, mutano, e si evolvono per adattarsi a nuove condizioni, come formalizzato nel Teorema Fondamentale della Selezione Naturale (FTNS) (8). In secondo luogo, per crescere e riprodursi essi hanno bisogno di un ospite (questo è vero soprattutto per i funghi che causano malattie e per gli insetti, ma anche per alcune infestanti, le cosiddette infestanti parassite); l’ospite è la pianta (o più in generale l’organismo che attaccano). Se tale organismo è completamente resistente, essi muoiono. Muoiono?  No, perché sono variabili, e le rare mutazioni spontanee che rendono i parassiti capaci di attaccare l’ospite avvengono continuamente, e consentono agli individui portatori di queste mutazioni di sopravvivere. In assenza dell’ospite resistente, questi individui non hanno alcun vantaggio specifico. Ma, se all’improvviso, come accade con le varietà uniformi che sono ora prevalentemente coltivate nell’ agricoltura moderna, una varietà nuova, geneticamente uniforme e resistente, sia essa GM o convenzionale, viene coltivata, questi individui diventano improvvisamente i soli in grado di riprodursi, e poiché tutte le piante della varietà sono geneticamente identiche, si diffondono molto rapidamente. La generazione successiva sarà in gran parte costituita dai nuovi tipi capaci di attaccare l’ospite. Se la varietà ospite non cambia, avremo un’epidemia ed estese perdite di raccolto.

Questo è quello che è successo con la diffusione di erbe infestanti del cotone transgenico resistenti al Roundup in alcune zone della Georgia, negli Stati Uniti d’America, dove, nel 2012, il 92% dei coltivatori di cotone GM hanno dovuto diserbare a mano il 54% dell’intero raccolto (9​​). Altri casi di evoluzione di resistenze sono stati documentati negli insetti (10, 11) e delle malattie (12).

Quanto detto sopra accade anche negli esseri umani, quando i batteri sviluppano resistenza agli antibiotici (13,14).

Per concludere, qualsiasi meccanismo di protezione contro un parassita delle colture, sia essa genetica o chimica, può essere descritto come instabile o stabile e gli OGM appartengono alla categoria di soluzioni instabili al problema della protezione contro i parassiti ed è per questo che, nella migliore delle ipotesi, forniscono soltanto una soluzione temporanea, che a sua volta, come descritto sopra, crea un nuovo problema (una razza resistente del parassita), che richiede una soluzione diversa (un nuovo OGM). Pertanto, l’introduzione di OGM in agricoltura avvia una reazione a catena che beneficia solo l’azienda produttrice di OGM.

 Bibliografia (molti sono disponibili in http://www.miscugli.it/#!/OGM)

  1. Luis Herrera-Estrella L, Depicker A, Van Montagu M, Schell J. 1983 Expression of chimaeric genes transferred into plant cells using a Ti-plasmid-derived vector. Nature 303: 209–213.
  2. Editorial 2013a. Tarnished Promise. Nature 497: 21
  3. Doug Gurian-Sherman D. 2009 Failure to yield. Evaluating the Performance of Genetically Engineered Crops. UCS Publications. Two Brattle Square, Cambridge, MA 02238-9105, pp 44.
  4. Xu Z, Hennessy DA, Sardana K, Moschini G. 2013. The Realized Yield Effect of Genetically Engineered Crops: U.S. Maize and Soybean. Crop Science 53: 735–745.
  5. Fisher M. 2012. Many Little Hammers: Fighting Weed Resistance with Diversified Management. CSA News, September 2012: 4-10
  6. Gassmann AJ, Petzold-Maxwell JL, et al. 2011 Field-Evolved Resistance to Bt Maize by Western Corn Rootworm. PLoS ONE 6(7): e22629. doi:10.1371/journal.pone.0022629.
  7. Lu Y, Wu K, Jiang Y, et al. 2013 Mirid Bug Outbreaks in Multiple Crops Correlated with Wide-Scale Adoption of Bt Cotton in China. Science 328: 1151 – 1154.
  8. Shaw RG, Shaw FH. 2014 Quantitative genetic study of the adaptive process. Heredity, 112: 13–20.
  9. Fisher M. 2012 Many Little Hammers: Fighting Weed Resistance with Diversified Management. CSA News, September 2012, 4-10
  10. Stern VM, Reynolds HT. 1958 Resistance of the spotted alfalfa aphid to certain organo-phosphorus insecticides in Southern California. Journal of Economic Entomology 51: 312-316
  11. Teetes GL, Schaefer CA, et al. 1975 Greenbug Resistance to Organophosphorous Insecticides on the Texas High Plains. Journal of Economic Entomology, 68: 214-216
  12. McDonald BA, Stukenbrock EH. 2016 Rapid emergence of pathogens in agro-ecosystems: global threats to agricultural sustainability and food security. Trans. R. Soc. B 371: 20160026.
  13. Frieden, T., 2013. Antibiotic Resistance Threats in the United States, 2013. Centers for Disease Control and Prevention. pp 114
  14. Reardon, S., 2014. Antibiotic resistance sweeping developing world. Nature, 509: 141-142

 La Rapa, una coltura invernale

del Dr. Agr. Luciano Aliberti

 

La rapa (Brassica rapa) è un ortaggio che chiede pochissimo, ma non sopporta il cado e la siccità, per cui al Sud o nelle regioni più temperate, cresce meglio nel periodo autunnale-invernale. Al Nord può prevedere in settembre una seconda semina, magari in una varietà diversa da quella seminata in primavera-estate.

Si può scegliere la varietà ‘Palla di neve’, che forma una bella radice tonda, candida e dolce, è un po’ sensibile alla siccità, ma si presta sia alle semine primaverili che a quelle autunnali. Oppure la ‘Rossa di Milano’, bianca con il colletto viola, dalla forma appiattita e adatta a essere seminata in primavera o in autunno avanzato. Resiste bene al freddo anche la varietà ‘Di Nancy’. Se invece ne cercate una precoce (si raccoglie in 35-50 giorni) scegliete la ‘Market express’, tutta bianca, piccola, dalla polpa croccante e zuccherina e si può seminare in tutte le stagioni.

La rapa in estate tollera anche la mezz’ombra. Il suolo migliore è quello in grado di trattenere l’umidità, quindi sarà utilissima una buona pacciamatura in estate, ma anche in inverno: un buono strato di paglia la proteggerà dalle gelate. La rapa se seminata in un terreno troppo asciutto tende a diventare dura e  legnosa. Meglio se coltivata in un terreno concimato per la coltura precedente, perché la rapa non richiede un suolo troppo ricco.

La semina può essere prevista sia a marzo-aprile, sia in estate fino a settembre-ottobre. Si effettua a spaglio o a file, ponendo il seme a una profondità di circa 2 cm. Se avremo seminato a spaglio diradiamo le piantine (il diradamento va praticato solo quando la pianta avrà emesso la quarta foglia, altrimenti verranno attaccate come quelle della foto) lasciando una rapa ogni 15 cm. Se invece avremo adottato la semina a file, lasciamo 30 cm tra una fila e l’altra e 15 cm tra le piante sulla stessa fila. Per le varietà molto precoci si possono ridurre maggiormente le distanze. Se le condizioni climatiche sono ottimali (temperatura ideale 15-18° mentre la minima è  7°) le rape germogliano in circa 7 giorni.

Le rape possono seguire qualsiasi ortaggio primaverile-estivo, ma se le semineremo dove avremo raccolto le patate saranno più tenere e gustose. Staranno bene in compagnia di piselli, spinaci, lattughe e bietole e, a differenza di molti altri ortaggi, le rape non disegnano ‘l’aromatica’ compagnia del finocchio, che contraccambia la vicinanza, proprio grazie al suo forte aroma, allontanando le altiche. Le altiche sono insetti che saltellano appena si sfiorano e purtroppo le conosciamo molto bene perché spesso si divertono a bucherellare le foglie di nostri ortaggi e in particolare modo quelle delle rape.

C’è una cosa di cui la rapa non può fare a meno è l’acqua: irrigazione in abbondanza in fase germinativa e manteniamole normali e costanti in seguito. La rapa in condizioni di siccità oltre a diventare dura e fibrosa, tende ad andare subito a seme.

Il tempo di raccolta delle rape cambia molto a seconda della varietà, per cui atteniamoci alle indicazioni dateci dalle bustine dei semi. In genere è a scalare in base alla grandezza della radice e al nostro fabbisogno. Si estraggono dal terreno afferrando il fogliame alla base del colletto, mentre per togliere dal terreno quelle destinate ad una conservazione più lunga, utilizzeremo una vanga e poi le lasceremo asciugare sul campo per un giorno.

Se opteremo per utilizzarle all’occorrenza ricordiamoci di coprire bene le aiuole con la paglia, mentre se le raccoglieremo tutte insieme, poniamole in sacchi di rete o in contenitori di legno o cartone ben arieggiati e in un luogo fresco.

La rapa è totalmente commestibile: sia la radice, che le foglie tenere e fresche consumate in insalate o utilizzate per arricchire i minestroni di sali minerali.

 

La Potatura dell’ Olivo

del Dr. Benedetto Salamone
Questo periodo è particolarmente indicato per parlare di un argomento molto controverso ed una pratica agronomica indispensabile nel campo olivicolo

La potatura è una tecnica colturale che serve a migliorare la crescita delle piante e la loro fruttificazione. Infatti, questa tecnica viene abbondantemente praticata sugli alberi da frutto, sia ornamentali che produttivi anche se non è sempre necessaria per tutte le piante, ma in alcune di esse, caratterizzate da una crescita troppo vigorosa e disordinata. E’ in quel caso che diventa indispensabile, specie se si vuole mantenere una corretta forma della pianta o se si vogliono ottenere dei frutti più sani e facilmente commercializzabili procedere con dei tagli equilibrati.

Per quanto concerne l’olivo, la potatura si rivela necessaria per un buon risultato produttivo poiché dalla selezione delle parti produttive dell’albero, da quelle sterili o inutili, si ottengono i risultati sperati.

Ovviamente noi ci concentreremo prevalemtemente sulla potatura per finalità produttive dove si tende ad eliminare i rami secchi e inutili dell’albero, per lasciare ampio spazio a quelli da cui si svilupperanno le olive anche se un taglio può servire ad eliminare alcuni rami produttivi, in modo da favorire l’emissione di nuovi germogli. La  potatura serve inoltre ad equilibrare esteticamente la pianta asportando i rami che crescono disordinatamente che possono   compromettere la forma della chioma. Molti rami in eccesso vengono anche eliminati perché impediscono la penetrazione dei raggi solari nei rami fertili, i quali, non riuscendo ad effettuare la fotosintesi, rischiano a loro volta di seccarsi e di non produrre frutti. Si eliminano per fini estetici anche i rami grossi che tendono ad incrociarsi l’uno con l’altro deturpando la parte centrale della chioma, o i rami esterni o laterali che si sviluppano anche negli olivi ornamentali da giardino.

Ma come si pota un olivo? La potatura è una pratica colturale che si avvale di diversi metodi, tra cui i tagli di alcune parti vegetali, lo spostamento manuale dei rami, l’eliminazione dei germogli. Nell’olivo, la parte più importante della potatura è rappresentata dai tagli, cioè dall’eliminazione o dal raccorciamento di alcune parti dell’albero, specie rami e branche. Nell’olivo, i tagli di eliminazione superano quelli di raccorciamento, che vengono anche definiti tagli di ritorno.

La maggior parte dei tagli di potatura dell’olivo sono di eliminazione di rami grossi, antiestetici, deturpanti della chioma, vecchi ed improduttivi. Nell’olivo vanno tagliati anche i rami che tendono ad allungarsi, i polloni ed i succhioni. I primi sono rami improduttivi chiamati anche di prolungamento, i secondi, che si sviluppano sulla parte basale dell’albero, sono ugualmente improduttivi e vanno tagliati.

Gli ultimi, ovvero i succhioni, che si sviluppano sempre nella parte basale, possono essere improduttivi solo nel primo anno, mentre in alcune varietà di olivo tendono a fruttificare a partire dal secondo. Per cui, se si vuole che questi rami fruttifichino, è meglio praticare dei tagli di ritorno, cioè di raccorciamento. I tagli di ritorno si possono anche praticare sui rami fertili dell’olivo, che emetteranno nuovi getti migliorando la fioritura e la fruttificazione.  I tagli di potatura dell’olivo vanno praticati individuando con esattezza le parti da tagliare, in modo da non commettere errori e da non eliminare le parti utili dell’albero. Prima di procedere con i tagli bisogna anche chiedersi il motivo della presenza di molti rami improduttivi, quali i polloni ed i succhioni, che possono indicare uno squilibrio vegetativo dell’albero, causato da precedenti errori colturali.

In base alla tecnica, agli obiettivi ed al momento in cui viene effettuata, si distinguono diverse tipologie di potatura. Questo concetto vale anche per l’olivo, che potrà subire una potatura di impianto, di allevamento o formazione, di ringiovanimento, di riforma e di fruttificazione.

La potatura di impianto si pratica agli inizi dello sviluppo della pianta, cioè dopo un certo lasso di tempo dalla prima messa a dimora dell’albero. La potatura di allevamento o di formazione si effettua, invece, durante la crescita della pianta giovane, per condizionare la forma della chioma e l’intero portamento della pianta. La potatura di ringiovanimento si pratica, invece, negli alberi vecchi e consiste in genere, nel tagliare rami vecchi, secchi o improduttivi. La potatura di riforma consiste nel tagliare rami danneggiati da avversità o malattie, per ridare una forma migliore alla chioma, mentre quella di fruttificazione serve a migliorare la qualità e la quantità dei frutti.

Tutte queste tipologie di potatura, ad eccezione di quella di fruttificazione, che può servirsi anche dei tagli di rinnovo delle branche più giovani, si effettuano tramite tagli di eliminazione, che portano a una consistente sfoltitura della chioma dell’albero. La potatura di eliminazione può anche non essere necessaria nelle piante più giovani, specie nei primi due anni, mentre va praticata negli alberi più maturi. In base alla quantità di rami asportati si parla di potatura leggera o pesante. È leggera la potatura che asporta non più del 20% della chioma dell’albero, viceversa si parla di potatura pesante.

La potatura dell’olivo giovane si effettua ogni due anni, mentre quella dell’albero adulto si può praticare ogni anno. Per quanto riguarda la stagione della potatura, è preferibile eseguirla in inverno o primavera, tra marzo e maggio, nel periodo della fioritura.

Prima di effettuare i tagli è meglio aspettare temperature miti, perché quelle invernali o troppo basse, impediscono la cicatrizzazione delle ferite del legno. La comparsa improvvisa di rami secchi o improduttivi può essere potata in qualsiasi momento, anche se è preferibile aspettare sempre temperature gradevoli.

 

COLTIVARE L’ ASPARAGO SELVATICO

del Dr. Benedetto Salamone

Gennaio è un mese sostanzialmente fermo per l’ agricoltura, il mese delle gelate ma anche di preparativi, che si intensificano nel mese successivo quando le giornate si allungano sempre più consentendo  di dare l’avvio a diversi lavori in pieno campo come nel caso di molte colture primaverili ed estive che vengono preparate a campo aperto o in semenzaio già dalla metà di febbraio come l’aglio, la cipolla (bianca e colorata), la cipollina, il porro e lo scalogno. A fine mese bisogna mettere a dimora le piantine ottenute dai semenzai autunnali, lavoro  che verrà rinviata a marzo qualora  l’andamento stagionale sia troppo freddo. Per molte colture orticole la metà di febbraio è il mese ideale per la semina in coltura protetta cioè in vasetti o caselle che si andranno a trapiantare a cavallo tra marzo e aprile. E’ il caso del anguria, del cetriolo e del melone ed è un periodo preparatorio delicato anche per l’ asparago.

La coltivazione dell’asparago selvaggio è molto antica e risale per lo meno al tempo dei Romani, che certamente conoscevano l’asparago selvatico (Asparagus acutifolius) e lo impiegavano nella loro cucina. Un interesse dei  buongustai mantenutosi nei secoli sempre abbastanza alto per via dei suoi turioni (cioè la parte commestibile), ingrediente principe di numerosi piatti regionali, apprezzati per il loro tipico sapore amarognolo.

La realizzazione di una piccola coltura di asparago selvatico da noi suggerita è lunga ma non è difficile, e si rivela assai interessante.

L’asparago selvatico è una pianta arbustiva sempreverde perenne. Il suo apparato radicale è costituito da radici carnose, lunghe circa 25-30 centimetri, che si dipartono da un rizoma poco sviluppato provvisto di numerose gemme dalle quali, in primavera e se il clima lo consente per tutta la stagione vegetativa, emergono i turioni, di colore dal verde chiaro al verde scuro-violaceo. Questi si presentano dapprima teneri e non ramificati: quando si sviluppano assumono una consistenza molto coriacea e si ramificano a formare la vegetazione adulta della pianta, che raggiunge un’altezza compresa tra i 50 ed i 200 centimetri. I rami adulti sono composti da uno stelo provvisto di aculei e da false foglie, chiamate cladodi, a forma di ago lunghe 4-10 millimetri. Una volta che il turione ha emesso le ramificazioni non cresce più. I frutti sono piccole bacche sferiche di circa 6-8 millimetri di diametro, di colore verde se immature, più scure a maturità, le quali contengono ciascuna 1-3 semi di colore nero lucente. cresce sino ai mille metri di altitudine e si adatta  a diversi tipi di terreno.

Il reperimento in commercio delle piantine non è facile, e quindi vedremo come produrle direttamente dal seme raccolto in natura. La specie non ha bisogno di particolari cure e si coltiva senza alcun intervento fitosanitario. Questo lavoro, se è vero che allunga i tempi di preparazione ha il grande vantaggio di dare origine a piante sane che, provenendo da seme locale, sono adattate alle condizioni climatiche del posto con tutti i vantaggi che ne susseguono.

Il periodo ideale per questo lavoro è la metà o fine di novembre. Una volta individuate alcune piante di asparago selvatico, raccogliete circa 50 grammi di rutti maturi che devono risultare scuri ed essere morbidi al tatto, i cui semi origineranno circa 300 piantine, schiacciate alcuni semi tra il pollice e l’indice e verificatene la consistenza: se sono duri sono pronti per essere raccolti.

I semi appena raccolti non germinano a causa del fenomeno definito «dormienza»  e se fatti seccare. Per questo motivo i semi vanno posti in partico-lari condizioni di temperatura e di umidità, per un tempo variabile a seconda della provenienza del seme , ricorrendo ad una particolare tecnica che prevede la stratificazione dei frutti che descriviamo di seguito. Ponete in una piccola cassetta provvista di fori di sgrondo per l’acqua uno strato di sabbia dello spessore di circa 5 centimetri , ponetevi sopra i frutti di asparago selvatico appena raccolti per uno spessore di circa un centimetro e ricopriteli con altri 5 centimetri di sabbia .

Ponete la cassetta all’aperto e al fresco, in una posizione riparata dal sole ma non soggetta a gelate e, se non piove, mantenete moderatamente umida la sabbia.

Trascorso quasi un anno al mese di settembre i frutti si saranno decomposti ed i semi si troveranno sparsi tra gli strati di sabbia. Siccome i semi vanno appunto seminati con la sabbia, con una pa-letta da giardinaggio mescolate ripetutamente il contenuto della cassetta . A questo punto procuratevi un’altra cassetta alta almeno 15 centimetri e di circa un metro quadrato di superficie, mettetevi circa 10 centimetri di terriccio, effettuate a spaglio la semina, ricoprite con almeno 2 centimetri di terriccio ed infine ponete il tutto all’aperto in una po-sizione ombreggiata e mantenete il terriccio sempre moderatamente umido. A fine febbrario-marzo, quando le piantine sono spuntate seguitele con costanti irrigazioni e concimatele con un prodotto organico naturale alle dosi indicate in etichetta.  Ad aprile, quando le piantine hanno raggiunto un’altezza di circa 4-5 centimetri trapiantatele in vasetti di plastica alti almeno 10 centimetri e continuate la loro coltivazione, sempre all’aperto, irrigando costantemente sino al momento della messa a dimora in pieno campo a fine estate .

La coltivazione in vaso evita alle piantine la crisi di trapianto ed accorcia i tempi di entrata in produzione della coltura, soprattutto quando si utilizzano piante coltivate in contenitore 2-3 anni; in quest’ultimo caso le piante vanno concimate periodicamente, con un prodotto organico naturale alle dosi indicate in etichetta, ed irrigate costantemente. Nel caso non abbiate modo di trapiantate le piantine in singoli contenitori continuate la loro coltivazione nella cassetta di semina  sino a fine estate , quando verranno messe a dimora in pieno campo a radice nuda.

Vediamo adesso della asparagiaia. Prima di scegliere il luogo dove realizzare un’asparagiaia è utile fare alcune considerazioni. L’asparago selvatico non è molto produttivo: la produzione media è pari a soli 40-60 grammi di turioni per pianta; coltivare in un terreno solo questa specie non consente quindi di «sfruttare» a pieno la sua fertilità. Per questo motivo è possibile coltivare l’asparago selvatico in un piccolo frutteto, oliveto, ecc. Nel caso consociaste l’asparago con specie da frutto, olivo, ecc., mettete a dimora le piantine solo lungo la fila d’impianto degli alberi stessi per evitare che l’asparagiaia intralci le operazioni colturali che si devono effettuare per le piante da frutto. Ciò non toglie che un appassionato orticoltore non possa realizzare una razionale asparagiaia coltivando in un terreno esclusivamente questa specie spon-tanea per i suoi usi familiari.

Ad agosto la preparazione del terreno e concimazione organica di preimpianto. Ove possibile lavorate il terreno vangandolo sino ad una profondità di 25-35 centimetri e frantumate le zolle con un erpicatore manuale o con una motozappa. Nei casi in cui invece non sia possibile effettuare questo lavoro di fondo del suolo, come ad esempio su scarpate, terreni impervi o in al-tre situazioni, realizzate semplicemente con una zappa delle buchette di dimen-sioni proporzionate all’apparato radicale delle piante. In quest’ultimo caso occorrerà contenere le erbe infestanti con periodiche sfalciature sino a quando le piante saranno adulte. Durante i lavori di preparazione del terreno interrate letame o compost ben maturi alle dosi di 3-5 chilogrammi per metro quadrato.

A fine estate avviene la messa a dimora in pieno campo quando le piantine hanno raggiunto un’altezza di circa 15-20 centimetri, procedete alla loro messa a dimora in pieno campo, preferibilmente quando ricominciano le piogge. Ponete le piantine in solchi profondi quanto basta per garantire che il colletto si trovi circa 5 centimetri sotto il piano di campo, rispettando una distanza d’impianto di 30-40 centimetri sulla fila e di almeno 80-100 centimetri tra una fila e l’altra. Se necessario al momento del trapianto sfoltite leggermente la vegetazione delle piantine. Nel caso trapiantaste piantine a radice nuda ricoprite il rizoma con terra fine perché da questa parte della pianta verranno prodotte nuove radici.

Sempre a fine estate  e per gli anni successivi si effettua l’irrigazione.

Dopo il trapianto eseguite un’abbondante irrigazione. Se operate in una zona dove non vi è possibile portare acqua cercate di effettuare il trapianto poco prima dell’arrivo di una pioggia. Anche se l’asparago selvatico, come detto, è poco esigente in fatto di acqua, nei periodi più siccitosi è buona cosa irrigarlo, soprattutto nel primo anno dopo il trapianto.

 

II FOTOVOLTAICO IN AGRICOLTURA

del Dr. Luciano Aliberti

Parliamo delle serre fotovoltaiche. Aspetto innovativo in Agricoltura per le colture che rientrano fuori dal periodo di produzione e per un riscontro economico ed energetico.

E’ considerata “serra fotovoltaica effettiva quel “manufatto chiuso fisso ed ancorato al terreno” che assolve contemporaneamente a due compiti: quello di fornire prodotti agricoli e/o florovivaistici e quello di produrre energia elettrica da fonte fotovoltaica. Queste serre devono avere capacità agricola adeguata, con un livello minimo di illuminamento uguale o maggiore al 75%, che vincoli il terreno sottostante ad una produttività agricola superiore a quella del campo aperto. Le serre per uso agricolo o per la floricoltura presentano due importanti caratteristiche che si prestano ad un impiego fotovoltaico: la corretta esposizione all’irradiazione solare e le vaste superfici disponibili. L’elettricità prodotta dai pannelli fotovoltaici posti su una serra, da parte sua, si presta ad essere utilizzata per la climatizzazione, il controllo e l’irrigazione della serra stessa. Anche per i grandi impianti su serra realizzati ad doc per investimento, l’uso di queste strutture presenta numerosi vantaggi. Le serre fotovoltaiche devono quindi garantire il corretto equilibrio fra un adeguato irraggiamento interno nel periodo invernale e una sufficiente protezione da eccessivo irraggiamento durante il periodo estivo. La luminosità della serra è fondamentale per le colture; deve essere uniforme quanto più possibile e garantita per il maggior numero di ore giornaliere possibile. Colture che necessitano di luce diretta di notevole intensità possono essere poste in serre in cui i moduli non coprano l’intera superficie ma sono posti a scacchiera in modo da garantire comunque un certo irraggiamento solare durante l’arco della giornata. In alternativa si può considerare l’utilizzo di pannelli fotovoltaici semitrasparenti. Gli aspetti da tenere in considerazione sono molti: coltivazioni in fuori suolo o in situ, coltivazioni orticole o floricole, diverse esigenze geografiche e climatiche, il mercato locale, tutti i componenti e gli accessori di impiantistica. L’energia elettrica prodotta dai moduli fotovoltaici può essere utilizzata per la serra stessa: impianti per la climatizzazione, per il suo controllo e la sua gestione, impianti di irrigazione, movimentazione di bancali e di aperture per la ventilazione, e così via. La serra fotovoltaica deve, quindi, garantire allo stesso tempo la produzione agricola e la produzione di energia elettrica.

La“serra fotovoltaica” è semplicemente una serra con pannelli PV installati tipicamente sulla falda a Sud. Serre realizzate con elementi metallici prefabbricati. Due le tipologie: bifalda/monofalda. Nella serra bifalda, la parte orientata a sud viene coperta per il 100% da moduli mentre quella a nord è realizzata con pannelli in vetro trasparente. Nella serra monofaldala copertura può essere: al 100% con moduli fotovoltaici, dal 60 al 90% con una distribuzione alternata dei moduli con vetro trasparente. I moduli usati sono in silicio cristallino laminati senza cornice con un fondo trasparente per permettere un maggiore passaggio di luce di quelli opachi (10% di trasparenza), oppure con meno celle ridistribuite per singolo pannello.

Gli effetti sulle colture della copertura fotovoltaica Sono state prese in esame e confrontate tre diverse colture, impiantate nelle due serre in ferro e vetro del tipo a campata larga, sopra descritte, una serra «fotovoltaica» e l’altra serra non fotovoltaica, di identica forma. Gli effetti sulle colture sono stati misurati coltivando in successione tre specie orticole (Ocimumbasilicum, Lycopersicum esculentum, Cucurbita pepo subsp. Pepo). Le colture orticole sono state allevate in maniera convenzionale, su terreno ammendanti con sostanza organica. I dati raccolti nei due ambienti di coltivazione sono stati analizzati mediante applicazione del test, accettando una probabilità di errore del 5% e ipotizzando una distribuzione normale dei dati raccolti. I dati relativi alla produzione di energia sono stati analizzati e posti in relazione al periodo di rilevamento, ipotizzando una relazione di regressione lineare tra produzione di energia e periodo di produzione. Le valutazioni sopra effettuate sono state realizzate mediante l’impiego del programma di analisi statistica.
I vantaggi per le colture hanno riguardato la particolare geometria della serra che consente sempre una importante illuminazione indiretta dal lato nord, favorita anche dalla quota di luce riflessa dalla copertura della falda della serra nella fila successiva affiancata, ed una illuminazione dal lato sud che risulta indiretta nelle condizioni di massima inclinazione solare, cioè nelle ore centrali della giornata nel periodo estivo, mentre l’irraggiamento è diretto in condizioni di inclinazione solare inferiore. Questo effetto quindi riduce l’irraggiamento diretto quando risulterebbe eccessivo mentre non lo impedisce in condizioni più normali. Infine la copertura opaca trattiene la dispersione termica nelle ore notturne favorendo il mantenimento di temperature più miti. Complessivamente ne risulta un sistema di coltura caratterizzato da un profilo termico più regolare in grado di evitare i picchi dannosi. É stata considerata la produzione dei frutti e il peso medio sulla cultivar di zucchino Althea, sulla coltivazione di basilico, e sulla produzione di pomodoro cultivar Cuore di Bue. In questi ultimi anni le energie rinnovabili hanno avuto una grande espansione nel campo dell’energia idraulica, geotermica, eolica, delle biomasse e del solare. Come abbiamo trattato in precedenza, abbiamo potuto notare che nel campo dell’energia solare, grazie l’ausilio dei pannelli fotovoltaici, si è incrementata sempre più la produzione di energia solare, dando così spunto alla progettazione di serre fotovoltaiche che tutt’ oggi, sono in fase di sperimentazione e ricerca, nel campo dei materiali più idonei alle condizioni di crescita delle colture e delle innovazioni colturali. Col passare degli anni le serre fotovoltaiche si andranno sempre più incrementando, e si verranno ad immettere sul mercato sempre più materiali innovativi sia di struttura che di copertura. L’obbiettivo cardine è quello di un risparmio energetico, ovvero un incremento di produzione e di qualità del prodotto ottenuto. Oggi le produzione e la qualità del prodotto ottenuto in serra fotovoltaica vanno di pari passo a quello ottenuto in una normale serra, il fine è quello di ottenere una produzione maggiore e di migliore la qualità del prodotto, in modo tale che esso sia sempre competitivo sul mercato, sia a livello economico che qualitativo. In Italia, le ricerche sulla possibilità di coltivare sotto serra coperta con pannelli fotovoltaici sono quasi del tutto assenti, se pur qualche prova è stata effettuata in Liguria, come riportato nella tesi. In queste prove gli impianti sono stati eseguiti però, ad inizio primavera (Aprile), in cui l’effetto della luce sulle coltivazioni è meno marcata rispetto ad una stessa coltivazione effettuata in inverno. Sarebbe auspicabile, soprattutto in Sicilia, zona vocata per la serricoltura, effettuare delle ricerche sulle specie orticole e floricole di maggiore interesse commerciale, nel periodo di maggiore importanza economica, che per la Sicilia è il periodo autunno-vernino. Il problema riguarda l’illuminazione, infatti in condizioni ottimali di coltivazione, quale l’utilizzo di apprestamenti protettivi di polietilene ad alta trasparenza ed alta resa termica, spesso l’illuminazione naturale è insufficiente. Per cui l’utilizzo della copertura fotovoltaica non sembra essere di buon auspicio per la produttività e qualità di molte specie ortofloricole, tuttavia alcune specie di piante ornamentali quali palmacee ( Kentia, e Kamaedorea) ed alcune agavecee (Aloee) potrebbero trovare condizioni pressoché ottimali di coltivazione sotto apprestamenti ricoperti da pannelli fotovoltaici. Sicuramente le specie floricole da fiore reciso come rosa e gerbera che hanno bisogno di un’illuminazione supplementare anche in Sicilia sotto serra normale, è da escutere l’utilizzo sotto serra fotovoltaica. In conclusione per le coltivazioni primaverili estive che hanno scarso o nullo interesse
per la Sicilia, poiché i risultati migliori li otteniamo in pin’aria, la coltivazione in serre fotovoltaiche potrebbe dare buoni risultati agronomici ed energetici.

COLTIVARE L’IPERICO

del Dr. Luciano Aliberti

Cari lettori! Qualcuno di voi ha mai sentito parlare dell’ iperico detta anche erba di San Giovann? Una pianta dalle proprietà quasi miracolose! La tradizione vuole  la notte di San Giovanni  il periodo più propizio per la raccolta di questa  pianta officinale le cui proprietà antidepressive e antivirali sono note da sempre. Vediamo di conoscerla meglio!

L’Hypericum perforatum è una pianta perenne i cui habitat ideali sono i prati aridi, i margini delle strade, ed i luoghi erbosi e incolti.  Ricchissima di principi attivi come  flavonoidi, tannini, ipercina, acido clorogenico e caffeico,si ricava un olio che è un valido rimedio in caso di scottature, ustioni ed eritemi solari.  E’ inoltre utile per trattare la pelle arrossata da pannolini nei bambini,  è un ottimo sbiancante per le macchie della pelle, da eccellenti risultati nella cura della psoriasi ed è anche un ottimo alleato per combattere l’invecchiamento poiché stimola la rigenerazione cellulare (è infatti questo il motivo della sua efficacia contro le ustioni). Eccellente come lenitivo doposole non va però usato prima di esporsi al sole perchè ha un effetto fotosensibilizzante, cioè durante l’esposizione al sole rende la pelle più sensibile agli effetti dannosi delle radiazioni.

La pianta presenta un asse fiorale allungato e privo di foglie erbacea, rizomatosa cioè dotata di rizoma ovvero di  una rigonfiamento del fusto con funzione di riserva , con rami orizzontali grossomodo  arrossati, rami fiori eretti e ramosi, con steli che presentano 2 rilievi che danno l’impressione di stelo appiattito.

Mediamente misura  il metro di altezza, le foglie sono opposte, quasi sessili o con brevi peduncoli, hanno lamina ovato-lanceolata ossia dalla forma ellittica ed estremità appuntita, cosparsa di ghiandole traslucide che in trasparenza sembrano forellini e ghiandole scure sul bordo. I fiori sono riuniti in infiorescenze irregolari multiflori, di colore giallo-oro; hanno 5 sepali acuti interi, con ghiandole nere al margine e 5 petali ovali, asimmetrici, dentatellati, con ghiandole scure sul bordo. I frutti sono capsule triloculari setticide di 5-9 mm, da ovoide a sub coniche, rossastre, con 2 linee longitudinali per ogni valva e ghiandole rossastre, oblunghe e oblique ai lati. Semi cilindrici o ellittici, a volte ricurvi, con superficie reticolata, rossi o rosso-nerastri, che misurano 0,8-1 mm. (Specie Officinale).

L’iperico allo stato spontaneo predilige i  luoghi soleggiati ed aridi del piano basale, collinari e montani nonostante sia una pianta rustica comune sui suoli secchi e poveri in coltivazione richiede una certa quantità di acqua e di fertilizzanti. L’irrigazione e necessaria al momento della semina, dopo il trapianto e dopo il primo taglio per favorire la ripresa vegetativa. tuttavia anche in coltivazione, non ha speciali esigenze di terreno; cresce bene su  terreni calcari, ma anche su quelli silicei ed acidi, sopporta quelli argillosi, ma nel caso di semina diretta, necessita di un terreno leggero, rivo di infestanti perenni e senza ristagni d’acqua. La coltura di iperico dura solo eccezionalmente non più di due anni. La preparazione del terreno consiste in un aratura autunnale, con erpicatura in caso di semina diretta,  e successiva rullatura, in questo caso il terreno deve essere finemente lavorato a causa della piccolezza del seme.

Concimazione fosfo-potassica effettuata al momento della lavorazione del terreno. La concimazione azotata viene eseguita in tre tempi: dopo il trapianto; dopo il primo taglio; alla chiusura della fila.

Sono possibili due tipi di impianto: I semi sono di forma semi cilindrica  con peso di 1000 semi di 0.1 g

 Per semina diretta a fine estate/autunno, si consiglia di usare  in via prudenziale 3 kg/ ha di sementi, seme viene sempre trattato con metiram o altri concianti. La germinabiltà del seme deve essere ≥ al 70% effettuata con seminatrici. La semina tardo-estiva  o autunnale viene effettuata nei mesi di settembre/ottobre/novembre, permettendo una stratificazione naturale del seme, nel quale l’umidità e le basse temperature invernali ne sboccano la dormienza. – Per trapianto, effettuato verso aprile/maggio a seconda del clima, con distanze che oscillano da 25 a 40 cm sulla fila a 40- 60 cm tra le file.

 

Il seme debitamente conciato con metiram o con altri prodotti concianti, viene deposto in cassette riempite di terriccio verso la metà di febbraio. La dose di seme consigliata è di 9 g/mq. Le cassette seminate saranno coperte con tessuto da forzatura o  nylon mantenute umide protette dalla luce diretta e a temperatura di 20-25 °C. quindi il tempo di germinazione varia da 9 giorni a 2-3 settimane. L’irrigazione in serra si esegue a seconda della necessita in modo tale da umidificare il sub strato delle cellette. La raccolta della pianta intera sia della sommità fiorite, si esegue nel periodo della massima fioritura.

  • 1° anno: se trapiantiamo in marzo/aprile la prima fioritura cade a fine luglio/inizio agosto;
  • 2° anno: la prima fioritura si avrà in giugno/luglio e la seconda in settembre.

Le rese 1° anno 15-30 q (sommità fiorale); 2° anno da 15 fino a 70 q (sommità fiorale), nel caso della semina diretta in pieno campo le rese sono in genere inferiori del 30-50 % rispetto a quelle ottenute col trapianto.

 

 

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COME VALUTARE UN ANIMALE

 del Dr. Benedetto Salamone

 

Continia con la seconda parte l’ approfondimento su cosa serve per  valutare un animale per allevarlo, per acquistarlo, per venderlo e per la conoscenza  delle sue proprietà sistematiche e funzionali

SECONDA PARTE

ZOOGNOSTICA SISTEMATICA E ZOOGNOSTICA FUNZIONALE

La valutazione può essere divisa in due grandi gruppi:  valutazione sistematica o morfologica e valutazione funzionale o fisiologica ; la prima costituisce la zoo= gnostica sistematica, la seconda quella funzionale.

La Zoognostica  formale, che ha dominato fino all’inizio di questo secolo, interessando anche altre specie, cioè quella bovina , tratta della nomenclatura  e della descrizione delle regioni, accerta i pregi, i difetti , le tare e le malattie delle parti esterne degli animali, studia la morfologia  dei denti in rapporto alla diagnosi dell’età  degli animali, esamina il meccanismo dei movimenti, determina le misura   e le proporzioni del corpo, ed infine considera i mantelli e i piumaggi per l’elaborazione dello stato segnaletico.

In tutti i paesi dell’Europa continentale, la zoognostica formale si è sviluppata su basi empiriche, fino a quando Pott nel 1899 nella sua opera “ Il formalismo in zootecnia “ comincia a dubitare della consistenza scientifica  della valutazione formale.

La Zoognostica funzionale, sorge con l’introduzione dei controlli funzionali delle produzioni animali da parte di alcune società di allevamento che cominciarono a servirsi di questo metodo per valutare la produzione di latte, il contenuto in grasso, e l’alimento consumato da ciascuna bovina , in modo da favorire uno sviluppo razionale dell’allevamento e per ottenere elementi di confronto per una scelta razionale degli animali da destinare alla riproduzione.

Il 23 gennaio 1895 Federico Hausen, consigliere di stato, proprietario e direttore della Reale Stazione Sperimentale Agraria di Askov nello Jutland e Nils Pederson , direttore della Scuola Agraria di Iadelund (Jiutland) fondarono una associazione per il controllo quali-quantitativo del latte delle bovine danesi.

Nello stesso anno in Danimarca  sorse una seconda Società e nel 1896 ne sorsero altre tredici. Dalla Danimarca  le associazioni di controllo passarono nel 1896 in Olanda, nel 1897 in Germania, nel 1898 in Svezia e Norvegia, nel 1903 in Scozia e nel 1906 negli U.S.A.

In Italia, il primo controllo ebbe inizio in Lombardia nel 1922 sulle bovine appartenenti  alla Società Allevatori della Razza Bruna- Alpina di Crema, per iniziativa  della Cattedra Ambulante di Agricoltura  di Cremona col contributo del Ministero dell’Agricoltura  e delle Foreste. Attualmente in Italia il controllo sulla produzione del latte sulle   vacche da latte viene esercitato all’Associazione Italiana Allevatori in base alle norme emanate dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste oggi Ministero delle Politiche Agricole e Forestali con decreto originario del 24/05/ 67.

Le regioni interessate in un primo momento furono la Lombardia, Friuli, Veneto Piemonte, Emilia, Lazio oggi esteso in tutto il territorio Nazionale, che inviano periodicamente i dati  al centro elettronico dell’A.I.A. in Roma per le relative elaborazioni; oggi estese a tutto il territorio nazionale.  I controlli  riguardano anche le caratteristiche  riproduttive come l’età dei parti, il numero dei servizi per concepimento , la percentuale  di gravidanze  al primo servizio, la lunghezza dell’interservizio, la lunghezza degli interparti e delle relative frazioni : parto primo – servizio, primo  servizio – concepimento e lunghezza della gestazione, aborti, causa di morte e di eliminazione. I risultatati dei controlli vengono messi a disposizione di ogni allevatore per il miglioramento del proprio allevamento e di tutti gli allevatori organizzati, per il miglioramento generali dell’allevamento bovino. Oggi in Italia il controllo del latte si è perfezionato  in modo da divenire un vero e proprio metodo zootecnico per una ragionevole valutazione delle vacche da latte.

I vantaggi che scaturiscono da un controllo ben organizzato sono molteplici : rapida eliminazione dei soggetti improduttivi, scelta dei soggetti più produttivi al fine della riproduzione, scelta dei riproduttori sulla base delle produzioni delle figlie.

  • I controlli funzionali della produzione della carne nei bovini riguardano il peso all’età  tipiche dei bovini, la resa al macello e le caratteristiche della carcassa;
  • I controlli funzionali degli equidi da carne sono del tutto simili a quelle dei bovini; nel cavallo da corsa il controllo funzionale è molto più complesso :  si osserva il tempo di crescenza , conformazione e peso fino a due anni, ed il suo completamento a tre anni ; peso ed altezza sono i due parametri di massima osservazione ; lo sviluppo degli arti ed dei tendini  e quest’ultimi devono presentarsi sottili e resistenti come l’acciaio (tipici della razza inglese); l’ eccitabilità  del sistema nervoso; il numero delle pulsazioni al minuto e i tempi di percorrenza sui 1000 e più mt, che ci stanno ad indicare la capacita di resistenza dell’apparato respiratorio ;   la    morfologia  deve presentarsi di tipo respiratorio con uno sviluppo consistente di una rete sanguigna che produce  una eccitabilità della circolazione sanguigna ; una spalla che deve essere inclinata con una estensione degli arti anteriori e una groppa giustamente inclinata; una costituzione di tipo respiratorio; l’animale deve presentare nel complesso un habitus  longilineo;
  • nei suini le prove attitudinali sono complesse : per ogni animale si rileva il peso dell’alimento consumato, la proporzione fra il peso vivo ed il peso morto, la produzione  fra il peso morto complessivo ed il lordo, la qualità della carne e del grasso;
  • nell’allevamento ovino il controllo riguarda l’esame della lana, la pesatura periodica dei riproduttori, la prolificità, e per le pecore da latte il controllo quali-quantitativo del latte;
  • nel settore della pollicoltura interessa conoscere la precocità sessuale, il ritmo di deposizione, la pausa invernale,l’assenza della cova,e la qualità delle uova prodotte, in relazione alla quantità e qualità di alimento consumato.

Da quanto è stato esposto precedentemente, risulta che i continui e rapidi progressi dell’uomo nel campo dell’allevamento animale hanno consentito l’impiego di nuovi elementi di giudizio del bestiame che integrati con quelli tradizionali basati sulla esteriore conformazione facilitano la valutazione delle capacità produttive degli animali. Va rilevato che la Zoognostica formale non ha perduto oggi il suo valore in quanto nei casi in cui la prova attitudinale non si esegue, l’esame dell’esteriore conformazione resta l’unico mezzo di giudizio di cui dispone l’allevatore.

Compilato e redatto da Dott. Benedetto Salamone – perito zootecnico degli animali domestici . Diritti Riservati.

PRIMA PARTE

Stiamo parlando di un  argomento di cui se ne parla poco ma che riveste un aspetto rilevante nella  morfologica e nella fisiologia degli animali domestici; quel termine che prende il nome di zoognostica, materia oggi passata in disuso nel settore agrario -zootecnico, ma che rimane sempre un pilastro dottrinale della scienza della produzione animale.  Dal dopoguerra ad oggi la zoognostica si è sviluppata su di un piano scientifico, per cui molti  criteri di valutazione empirici sono stati abbandonati e sostituiti con altri convalidati dalla sperimentazione.

 Un soggetto bisogna  saperlo valutare e per fare ciò è necessario  conoscerlo;  quindi bisogna trattare quella branca della zootecnia che si chiama zoognostica che viene dalla etimologia zoo = animale gnosis = conoscenza :   conoscenza sistematica e funzionale dell’animale per la  produzione, riproduzione e sua valutazione  economica;  questo è l’argomento come già ho accennato all’inizio di   questa lezione.

Ogni riferimento  va esteso a   tutti gli animali domestici :  agli equini, bovini, ovini, caprini, suini ecc.. La scelta di un animale che si deve comprare o mettere in allevamento come riproduttore non  è mai una cosa molto semplice, e quando ciò avviene in modo avventato o superficiale  le delusioni non tardano ad arrivare.

Attenzione qui si comincia a entrare nel vivo  della materia (valutazione degli animali)  non solo sistematica  ma anche funzionale che sempre ha attratto tanti insigni studiosi  fin dall’antichità.

Gli allevatori  e i ricercatori di tutti i tempi, da quelli dell’antica Grecia, di Roma e di Bisanzio ai più recenti si sono sempre interessati della conoscenza e valutazione degli animali, sulla base di rapporti reali  fra valutazione,  costituzione ,habitus e l’ attitudini a produrre carne , latte, lavoro e nel caso del cavallo : a produrre potenza, velocità, ed un migliore rendimento di resa nel lavoro,( non a caso che la potenza delle auto viene oggi valutata in cavalli motori.)

Facendo  un breve accenno sul concetto di  Costituzione ( che tratterò in appresso) essa è molto antica : ne parlò IPPOCRATE e la scuola salernitana “nella teoria umorale” che distingueva “ il buono e il cattivo, il forte e il debole, il grasso e il magro ecc., c’è  da dire che  essa riconosce che l’aspetto esterno cioè  l’habitus è correlativo a determinate disposizioni; per esempio si può avere un habitus  pletorico, reumatico, catarrale non solo, ma ammette che nelle famiglie,  può esistere una costituzione ereditaria la quale può essere modificata pochissimo dai fattori ambientali.

 Andiamo per ordine onde non creare confusione:

Attraverso i secoli, l’uomo ha cercato di modificare i caratteri morfologici degli animali, esaltando alcune funzione allo scopo di aumentare la quantità  di prodotti utili. Se consideriamo la produzione lattea, osserviamo che essa ha lo scopo di sopperire alle necessità alimentari del neonato nei primi giorni della sua vita, sia nella animale selvatico  quanto in quello domestico, ma nelle razze lattifere essa è stata portata ad un livello elevato sorpassando i limiti fisiologici del carattere, fino a diventare una funzione economica vera e propria

La trasformazione degli alimenti, da prodotti vegetali in prodotti animali di elevato valore biologico utili all’uomo fu messa in evidenza da De Gasparin e da Baudement (Budement )nel 1803, e  fu chiarita ed illustrata dal Sanson nel 1907, i quali consideravano gli animali come delle vere e proprie macchine trasformatrici. Il successo dell’impresa zootecnica è proporzionata alla capacità degli animali di utilizzare nel miglior modo i foraggi e trasformarli in prodotti utili all’uomo – carne – latte – lana – polli –  ecc. o in prodotti che possono essere reimpiegati nell’azienda agricola lavoro, letame ecc.; nel caso del cavallo si considera l’energia e potenza che esso ci può fornire, come nel cavallo da lavoro da tiro pesante veloce(cavallo agricolo italiano) o lento (cavallo belga), nell’esaltazione dell’atleticità del cavallo sportivo (p.s.i),  la resistenza che può manifestare ad  una intensa attività di ginnica sportiva come nel Puro Sangue Arabo nell’endurage e nelle gare su lunga distanza di 30, 60, 80, 120 km ecc.

Da ciò si evince che l’allevatore nella valutazione  degli animali deve sapere discernere quegli elementi che depongono a favore di un vantaggio economico, impiegando tutti i mezzi di indagine che la scienza e la tecnica  mettono oggi  a sua disposizione.

Le  funzioni fisiologiche esaltate dall’uomo negli animali domestici si possono così suddividere :

  • funzione lattogena , rimane la più importante che interessa le seguenti specie : bovine, bufali,ovini, caprini ;
  • funzione miolipogena  che è un’altra importante funzione economica che tende a realizzare carni e grasso negli animali domestici sia grandi che piccoli;
  • funzione mallogena  riguarda  il filamento lanoso, ed è riferito solo  agli ovini;
  • funzione tricogena   che è caratteristica dei caprini e dei conigli;
  • funzione oogena  che riguarda i polli e le anatre ;
  • funzione pterogena che riguarda le oche per la produzione del piumaggio.

Non va dimenticata la produzione della pelliccia  che mantiene un mercato economico vivace, che interessa quelle specie di animali in via di domesticazione, volpe, visone, castoro, cincilà  ecc.

Nell’ambito di una specie vi possono essere razze in cui una sola delle suddette funzioni è stata esaltata, per cui si parla  di razza monoattitudinale : specializzata per la produzione del latte, della carne ,delle uova ecc.;  quando le funzioni esaltate sono due, si parla di razza a duplice attitudine- latte carne, carne e lana ecc. ; vi sono razze in cui le funzioni non esaltate sono egualmente presenti, ma si mantengono ad un certo livello fisiologico medio,come ad esempio la produzione della carne e del lavoro nella razza pugliese , la razza Modicana a triplice attitudine  tipica siciliana  : latte, carne, lavoro, che oggi è ridotta ad un numero marginale.

Il valore zootecnico e commerciale degli animali dipende dalle loro attitudini produttive, per cui la necessità di saperle valutare richiede criteri obiettivi che diano l’esatta misura delle reali capacità produttive degli animali.

Storicità nella zoognostica

Catone in” De Agricoltura”, Varrone in “ Rerum rusticarum”, Columella  in “Rei  Rustiche “, Plinio in “ Historia naturalis”, Virgilio  nelle “ Georgiche” hanno lasciato pregevoli notizie sulla valutazione degli animali.

La zoognostica moderna inizia  con il  “ Trattato sulla conformazione esteriore del cavallo” di Bourgelat( Burgelà) nel 1768 che fu il primo fondatore della prima scuola veterinaria francese dove vennero tracciate le prime linee dello studio sull’esteriore conformazione del cavallo. Nel 1843, Felice Lecoq (Lecoc )pubblicò  un eccellente trattato sulla conformazione del cavallo e dei principali mammiferi domestici. Nel 1884, Goubaux (Gubò) e Barrier (Barrier) pubblicarono un opera magistrale sull’Esteriorità del  cavallo ed il termine “esteriore conformazione” venne in  seguito largamente usato.

Il termine “ ezoognosi fu adottato per la prima volta da Cristin (Cristen) nel 1864 nel trattato sulla “ conoscenza delle parti esterne degli animali domestici utili  ; tale termine fu ritenuto dal Baldassare consono alla derivazione etimologica della parola dal greco eso = esterno – zoon = animale, gnosis = conoscenza, quindi conoscenza dell’animale dall’esterno.

I tedeschi, dopo aver adottato il termine francese di “ Exterieur “(esterier) preferirono parlare di Beurte ilungs lehre che tradotto vuol dire “ dottrina della valutazione”. Gli anglosassoni parlarono di  “Principi e Pratica nel giudicare gli animali. E per finire il termine “ ezoognosia” è stato usato in Italia fin al 1940, da tale epoca,  la valutazione fenotipica  degli animali vivi viene denominata “zoognostica “.