La Provola dei Nebrodi

Cari Amici! In questa puntata di Blog voglio addentrarmi nel mondo dei formaggi siciliani e nello specifico in questo ambito parlare della Provola dei Nebrodi o Caciocavallo. Per  fare ciò mi affiderò alle conoscenze trasmesseci dal “ Manuale Teorico Pratico d’ Agricoltura e Pastorizia” del Sac. Gaetano Salamone, andata alle stampe per la prima volta a Mistretta nel 1872 e ad oggi una preziosissima testimonianza della  tradizionale tecnica di lavorazione di questo singolare formaggio a pasta filata.

La provola dei Nebrodi

Eccovi diseguito il paragrafo relativo al caciocavallo o provola dei Nebrodi:

“La Provola dei Nebrodi “ Si fa dal latte di vacca o capra mescolato al quello della vacca, ed anco solo: ma i migliore si cava dal latte di vacca.

Quando vorrà farsi caciocavallo, il latte quagliato nel modo sopradetto si rompe con un lungo bastone, alla cui estremità vi è attaccata una ruota di legno circolare piana o convesso-concava, del diametro d’un palmo più o meno, secondo la quantità della quagliata e la grandezza della tina, il quale ordegno si chiama (ruotola) e si dibatte e si rimena tanto, finchè la massa prenda nuovamente l’ aspetto quasi di latte, e tanto meglio riesce; quanto più si fatca. Ciò fatto si lascia riposare un 6, o 10 minuti, nel qual tempo la parte caseosa, ridotta in una massa bianca, detta (tuma) si precipita nel fondo e la parte sierosa, detta (lacciata) salisce sopra.  Allora il cascinaio detto (summataru) comincia a premerla con la rotola per viepiù consolidarsi ed i giovani con piccoli vasi di legno aventi la figura d’un cono troncato con l’ altezza ed il diametro di circa un palmo nel vuoto interno, detti (scischi) prendono la lacciata dalla tina e la mettono entro la caldaia di rame per fare la ricotta. Levata tutta la lacciata mettono scisce piene d’ acqua, o altri pesi sopra la tuma per asciugarsi maggiormente e consolidarsi, raccogliendo sempre la lacciata che esce da detta tuma. Ridotta a tale stato si taglia in 2,3 o 4 pezzi secondo la quantità, si esce dalla tina e si mette entro un tavolone largo da 4 a 5 palmi, lungo da 5 in 6, alto ne’ suoi labri poco meno di 2 decimetri detto tavuliere. Ivi si taglia a strisce larghe circa 4 dita e si mette di nuovo entro la tina. Siccome fra questo mentre si è fatta la ricotta nel modo che saremo per dire appresso, si mette nella tina tanto siero bollente, quanto sopravanza 4 dita sopra le strisce della tuma e si lascia concuocere finchè il siero si raffreddi astato di potervi soffrire la mano.

Il caciocavallo prende il nome dalla tradizionale maniera di conservazione su travette

Allora si esce nuovamente la tuma dalla tina, si mette nel tavoliere, si liscia con le mani e si preme per ispogliarla da siero e bene asciuttata, s’è tempo d’inverno, si mette sopra una tela e si coverta, s’è tempo d’ estate, si sospende ad un legno, e si tratiene in tale stato per lo spazio di 12, 18 o 24 ore finchè s’avveri la fermentazione acida. Quando è già lievitata si taglia a strisce della grossezza di un pollice e si mette entro una tina del diametro ed altezza di circa tre palmi, detta (piddiaturi), si coverta nuovamente con siero bollente sino a due dita sopra e si tiene coverta per lo spazio di 8 minuti circa per ammollirsi ben bene. Dopo con un legno lungo  5 palmi circa detto ( manuvedda) si fatica, preme e rivolta in tutti i versi, dicono essi (si scana) come si fa con la pasta, per lo spazio d’un mezzo quarto, finchè si riduce ad unica massa. Ciò fatto si pone tutta la massa sopra al manuvedda sostenuta da due persone ed altre due la lisciano con le mani, rivoltandola sopra se stessa nel caso che per eccessiva mollezza s’ allunga di troppo.

Avendola lisciata bene e ridotta in un’unica massa, colle mani si fa in pezzi tanto grandi quanto i caciocavalli che si vogliono fare e di nuovo si mettono dentro il siero ancor caldo che si trova dentro la piccola tina detta piddiatturi. A’caciocavalli sogliono darsi due forme conosciute, credo,da tutti i Siciliani, una a parallelepipedo rettangolare, cioè a quattro facce, larga circa un decimetro e lunghe  circa 4 decimetri e più o meno a piacere di chi la ordina; e l’ altra a (provole) le quali hanno una figura di una gran pera del peso d’un chilogrammo circa. Quelli a 4 facce si fanno sopra un tavolo coi labri rialzati d’un decimetro, detto tavuletta ed una forma di legno simile al casca callo che dovrà farsi. Ordinate tali cose, persone pratiche prendono un pezzo di tuma da dentro il piddiaturi e stringendola nelle mani le danno la forma che si da al pane pria di metterlo nel letto, asciugandolo bene dal siero, gli recidono il piccolo collo che si era formato e in tal forma la mettono posata  a un lato della tavoletta m rovesciata sul lato donde  si strappò il collo e mettono la forma del legno dall’ altro lato. Egli così posto comincia a dilungarsi e mentre il cascinaio (sammataru) ne fatica altri, un giovane lo rivolta e gli appoggia al fianco la forma di legno, finchè prende la forma del parallelepipedo. Questo fra pochi minuti s’indura e serve di lato per dar forma agli altri. Terminata in tal modo lì operazione, si lasciano ivi 24 ore rivoltandoli quando vi è bisogno e dopo si mettono per 48 ore dentro la salamoia preparata in un barile.

Sac. Gaetano Salamone

Le provole si manipolano pure con le mani, dandovi la forma d’una pera e subito si mettono entro la salamoia per 24 ore per addensarsi, altrimenti la forma si schiaccia.

Siccome queste sono più leggere dell’ acqua salata, un giovane continuamente per circa un ora o due ore con una fiscella deve affondare e rivoltare, finchè si saziano da per tutto di salamoia. Dipoi si levano dalla salamoia e legate con una cordellina grossetta di qualunque materia, si sospendono ad un travicello, ove fra lo spazio di circa 8 giorni prendono un colore gialliccio. Allora si mettono nuovamente per altri 24 ore circa entro alla salamoia e più o meno secondo la grandezza e sospese ad un travicello, si conservano all’ uso.

A 6 mesi si induriscono troppo: per conservarsi molli, bisogna untarle di olio di lino, o meglio d’un cemento composto di feccia d’olio comune e di rottami di tegole mediocremente pestate o pure dentro l’olio, ma rancidiscono un poco.

Più volte entro le provole nel manipolarle s’introduce un poco di butiro per mantenerle più umili e d essere un poco più grate a mangiare; ciò per lusso non per mercanzia”.

 

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