La Malva

La malva, presente con i suoi fiori “rosa malva” lungo i bordi delle strade, sui cigli dei fossi e nei campi e giardini di tutta l’Italia è una pianta ricchissima di proprietà preziose per l’organismo umano. Oltre ad acido clorogenico, acido caffeico e potassio, la malva è ricca di mucillagini. Le mucillagini contenute nella malva, fanno in modo che, bevendone una tisana, l’intestino si gonfi, si ammorbidisca e venga stimolata la contrazione e agevolato lo svuotamento. La sua capacità lenitiva che agisce sulle mucose del corpo è davvero evidente, ecco dove la malva “ammorbidisce”.

L’uso della malva è infatti particolarmente indicato se una persona soffre di stitichezza cronica: assumere una tisana alla malva equivale ad assumere un blando lassativo naturale, non irritante e non violento anche in dosi elevate, per questo viene consigliata anche a bambini o anziani.

La malva ha anche ottime proprietà antinfiammatorie, sia per la gola e per le prime vie respiratorie, con un buon effetto antitosse, espettorante e decongestionante, che per le irritazioni dell’ano e del retto, come le emorroidi.

Studi recenti stanno dimostrando le elevate proprietà della malva anche come rigenerante cellulare: una tisana alla malva al giorno stimola il corpo a produrre cellule nuove, contrastando il formarsi di quelle cattive o tumorali. Oltre che per fare la tisana, le foglie della malva si possono utilizzare per impacchi esterni o lavande vaginali.

Una buona tisana alla malva

Se avete la fortuna di abitare in campagna, o durante una scampagnata domenicale, non dimenticatevi di raccogliere qualche foglia di malva per preparare la vostra tisana. I fiori e le foglie della malva che si raccolgono, si fanno seccare e si mettono in vasetti di vetro per la conservazione.

Prima di tutto vediamo come preparare la tisana base, poi impareremo a realizzare le 5 tisane fai da te combinando la malva con altre piante officinali per la salute e il benessere del nostro organismo. Come preparare la tisana con sola malva Realizzare la tisana alla malva base, senza l’aggiunta di altre erbe, è semplice: vi basta acquistare in erboristeria le foglie e i fiori essiccati della pianta oppure le bustine già preconfezionate, meglio se biologiche. Partendo dalle foglie e dai fiori essiccati, è necessario fare attenzione alle dosi di malva che userete per preparare il prodotto. Una tisana alla malva si prepara aggiungendo due cucchiaini di pianta essiccata a circa 200 ml di acqua bollente. Si lascia in infusione per 10 o 15 minuti, si filtra il tutto con un colino e la tisana è pronta per essere gustata, aggiungendo, se lo ritenete necessario, qualche dolcificante naturale o del succo di limone.

1) Tisana alla malva e camomilla per l’intestino Una o più tazze al giorno di infuso di camomilla e malva è un rimedio naturale molto efficace per proteggere lo stomaco, in caso di gastrite e dolori. Miscelate 30 gr di capolini di camomilla dalle proprietà antispasmodiche, a 30 gr di foglie di malva, che dall’azione calmante e antinfiammatoria. Fate bollire 250 ml di acqua, aggiungete un cucchiaio di miscela di erbe, coprite e lasciate in infusione per circa 10 minuti. Filtrate con un colino e trasferite il liquido in una tazza. La tisana è pronta per essere consumata, preferibilmente dopo i pasti.

2) Tisana contro la cistite alla malva e calendula La calendula è un’erba dalle proprietà antimicrobiche molto efficace che va compensata con l’azione antinfiammatoria e lenitiva della malva. Serviranno: 40 gr di fiori e foglie essiccati di malva e 20 gr fiori di calendula. Prendete le erbe curative e miscelatele insieme fino ad ottenere un composto omogeneo. A questo punto, portate ad ebollizione circa 250 ml di acqua in un pentolino e versate due cucchiaini di questo mix di calendula e malva. Lasciate in infusione almeno 10 minuti, filtrate e bevete nel corso della giornata come aiuto nanturale in caso di cistite.

3) Tisana rilassante alla melissa e malva Questa tisana fai da te rilassante unisce le proprietà calmanti e sedative della melissa, che dona alla tisana un buon sapore, alle proprietà rilassanti della malva. Per realizzare questa tisana alla malva e melissa miscelate 30 gr di foglie e fiori essiccati e sminuzzati di malva a 30 gr di foglie essiccate e tagliate a piccoli pezzetti di melissa, portate ad ebollizione 250 ml di acqua in un pentolino e versate due cucchiaini di miscela, coprite e lasciate in infusione per 10 minuti. Infine filtrate il liquido e bevete questa tisana la sera prima di coricarvi a letto.

4) Tisana alla malva e menta per la gola L’infuso alla menta e malva è un valido aiuto per alleviare in breve tempo i sintomi legati al mal di gola. Questo infuso svolge anche un’azione tonificante sul nostro corpo, perché la menta agisce sul sistema nervoso centrale. Si sconsiglia di consumare la tisana moderatamente, in quanto la menta, essendo un ingrediente stimolante per il sistema nervoso centrale, potrebbe causare insonnia. Per preparare questa tisana antinfiammatoria miscelate 30 gr di foglie e fiori essiccati di malva a 10 gr di foglie fresche o essiccate di menta. Si portano ad ebollizione 250 ml d’acqua, si spegne il fuoco, si versa l’acqua direttamente su due cucchiaini di miscela precedentemente posizionati sul fondo della tazza. Si copre lasciando in infusione per 10 minuti. Si procede poi filtrando con un colino e l’infuso è pronto. Se lo desiderate potete aggiuingere anche un cucchiaino di miele, per un effetto emolliente sulla gola.

5 )Tisana depurativa al finocchio e malva Per le sue proprietà depurative, digestive e drenanti, il finocchio aiuta ad eliminare i liquidi in eccesso e libera il corpo dalle tossine. Unendo il finocchio alla malva, questa tisana avrà anche un effetto calmante ed emolliente e sarà molto utile per il benessere intestinale. Portate ad ebollizione 200 ml d’acqua in un pentolino, spegnete il fuoco, versate nell’acqua un cucchiaino di semi, foglie o radici di finocchio e un cucchiaino di foglie e fiori essiccati di malva sminuzzati. Coprite e lasciate in infusione per circa 10 minuti. Filtrate il liquido con un colino e la tisana è pronta per essere consumata. Si consiglia di consumarla dopo i pasti o nel corso della giornata.


London Food Guide

Cosa conoscete di Londra? Della tradizionale cucina anglosassone? come giudicano i londinesi la cucina italiana?

Insieme ad Alberto Zingales, la Torre del Gusto vi porta in giro per la capitale del Regno Unito per  scoprire le nuove tendenze nel cibo e illustrarvi  come gli inglesi apprezzano il made in Italy quando è veramente di qualità.

Buona Visione!!!

Il Battello del Brenta

 

Il diario di  viaggio da Venezia a Padova

Continuiamo il nostro itinerario alla scoperta del Veneto attraverso un suggestivo itinerario  nella rinomata riviera del Brenta. Partiti da Venezia, percorrendo con un battello un tratto delle riviera andiamo alla scoperta delle bellissime ville settecentesche del Veneto. Un fiume d’arte tra la magia del classicismo e la sintonia tra architettura, arte e paesaggio.

Andrea Palladio, Vincenzo Scamozzi, Giuseppe Jappelli, Giambattista Tiepolo, sono solo alcuni degli illustri nomi che hanno contribuito a rendere questo territorio incredibilmente interessante per tutti gli amanti dell’arte.

Prima sosta del nostro viaggio Villa FOSCARI detta LA MALCONTENTA è l’unica villa del Palladio lungo la Riviera del Brenta. Conservata nella sua architettura, si specchia nel Brenta in localita’ Malcontenta, vicino a Mira (VE). Tornata di proprietà della famiglia Foscari nel 1973, nel 1994 è stata segnalata come “Patrimonio dell’Umanità” dall’UNESCO. La Villa è tuttora priva d’illuminazione elettrica, per scelta dei proprietari.

Continuiamo poi con la visita alla VILLA WIDMANN detta anche Villa Seriman, Foscari Widmann-Rezzonico si trova lungo la Riviera del Brenta, nel Comune di Mira (VE), in località Riscossa.
Oggi questa spettacolare Villa Veneta è di proprietà della Provincia di Venezia ed è utilizzato quale sede di mostre ed eventi culturali e mondani. La Villa comprende la casa padronale con il giardino e la corte adiacente, la barchessa, la chiesetta ed il vasto parco a nord con la serra, arricchito da statue settecentesche, numerose specie arboree,volatili ed un laghetto.

Villa Pisani detta anche la Nazionale, rappresenta certamente uno dei più celebri esempi di Villa Veneta della Riviera del Brenta; sorge a Stra, in provincia di Venezia, ed occupa un’ intera ansa del naviglio del Brenta, si estende su una superficie di 11 ettari ed un perimetro esterno di circa 1.500 metri. Venne costruita a partire dal1721 su progetto di Gerolamo Frigimelica e Francesco Maria Preti per la nobile famiglia veneziana dei Pisani di Santo Stefano. Al suo interno sono visibili opere di Giambattista Tiepolo, Giovanni Battista Crosato, Giuseppe Zais, Jacopo Guarana, Carlo Bevilaqua, Francesco Simonini, Jacopo Amigoni e Andrea Urbani.

Percorriamo  quindi la foce fino a Padova. Un antico detto recita: “Venezia la bella, e Padova sua sorella“,Il paragone con Venezia dovrebbe già far comprendere, a chi non è mai stato in questa città, cosa troverà durante la sua visita. La Cappella degli Scrovegni di Giotto, il più importante ciclo pittorico del mondo, basterebbe già da sola a giustificare una visita a Padova.

Sempre in tema di arte, i Musei Civici raccolgono una bella collezioni di pittori soprattutto veneti (Tiepolo, Tintoretto, Veronese) e nel Battistero del Duomo è perfettamente conservato un altro straordinario ciclo di affreschi, quello di Giusto de’ Menabuoi.

Non si può dimenticare la presenza del “Santo” come lo chiamano i padovani: Sant’Antonio la cui presenza secolare in città si ritrova non solo nelle reliquie conservate nella Basilica ma anche nei tanti dolci che portano il suo nome.

Le molte piazze cittadine, in particolare Piazza delle Erbe, della Frutta e dei Signori, tradiscono il piacere dei padovani (o patavini) per la socialità, di cui lo Spritz è l’emblema contemporaneo. Una scelta insolita per gli abitanti di una città del Nord, dove il clima non è sempre clemente. Poi c’è una straordinaria gastronomia, la presenza dotta ma giovane dell’Università e molti altri motivi di interesse.

La cucina padovana è una cucina di orto e di corte, basata cioè sulle verdure che si possono coltivare negli orti di casa e sugli animali che si allevano in cortile.

Abbondano, quindi, i piatti in cui i protagonisti sono la Gallina Padovana e tutti i suoi parenti stretti: l’oca, il cappone, l’anatra, la faraona, la Gallina Polverara, il galletto nano e i più comuni polli. Da questi ingredienti nascono i piatti tipici della tradizione: tra i primi, da assaggiare i bigoli (spaghetti grossi e ruvidi) e i tradizionalissimi risotti: non solo “risi e bisi“, riso e piselli ma anche con asparagi, o il radicchio. I bigoli si sposano splendidamente con “l’Oca in Onto“, carne d’oca dissossata, salata e conservata nel suo stesso grasso, usata anche come secondo piatto. Ancora tra i primi piatti: la pasta e fagioli, la zuppa con verze o altri ortaggi. I secondi seguono la linea della tradizione: bollito misto alla padovana, prosciutto di petto d’oca, i salami, la soppressa, la salsiccia luganega e il cotechino. Non mancano secondi piatti e salumi a base di cavallo e mulo. Tra i dolci da provare, la fugassa padovana (focaccia), la figassa (torta di fichi), la smegiassa (con uvetta) e la sbrisolona. C’è poi una lunga tradizione pasticciera legata a Sant’Antonio con il Pan del Santo, il Dolce del Santo gli Amarettoni e i Merletti. Ogni pranzo si apre con un classicissimo aperitivo Spritz e si chiude con una grappa. Per i vini non avete che scegliere: siete in Veneto!

E’ quindi la volta di visitare il famoso Orto botanico di Padova, tra i più importanti e certamente il più antico al mondo dal momento che la sua fondazione, risale al 1545, quando il Senato della Repubblica di Venezia decide di dar vita al progetto di Francesco Bonafede, docente e studioso dei “semplici”, le piante medicinali. La necessità di un luogo in cui coltivare e studiare le erbe ad uso terapeutico, potendo contare sulla loro osservazione diretta, nasceva dai frequenti errori nell’interpretazione dei testi classici e dalle numerose truffe commesse dagli speziali, i commercianti di erbe curative.

L’Orto Botanico costituisce il punto d’arrivo di una lunga tradizione scientifica cittadina in questo campo. Nel Medioevo Padova aveva conosciuto personalità di spicco, come Pietro D’Abano, traduttore di Galeno, e Giacomo Dondi, divulgatore delle opere di Dioscoride. L’Orto, realizzato da Daniele Barbaro e Pietro Da Noale, ebbe come primo curatore Luigi Squalermo detto Anguillara, che fece introdurre e coltivare circa 1800 specie. A causa dei continui furti di piante, nel 1552 la struttura dell’Orto, di forma circolare con un quadrato inscritto, fu cinta con un muro.

Oggi l’Orto Botanico accoglie 6000 specie diverse, e dal 1997 fa parte della Lista del Patrimonio Mondiale Unesco (World Heritage List) come bene culturale. Tra i preziosi alberi storici dell’Orto, il più famoso è una palma di San Pietro messa a dimora nel 1585 e resa famosa da Goethe, che le dedicò alcuni scritti e opere scientifiche; vi sono poi un platano orientale del 1680 con il fusto cavo, un ginkgo del 1750 e una magnolia forse risalente al 1786.

Da settembre 2014, a seguito dell’acquisizione di una nuova area a sud dell’Orto botanico antico, sono aperte al pubblico le nuove serre del Giardino della biodiversità, un simbolico microcosmo che permette al visitatore di sperimentare le diverse condizioni climatiche e di vegetazione presenti sulla Terra.

Non potevamo concludere il nostro percorso senza prima farci un giro nella campagna padovana di cui molto c’è da dire, sebbene noi ci soffermeremo su un prodotto in particolare, il celebre formaggio Asiago.Parliamo cioè  è un prodotto caseario di latte di vacca a pasta semi-cotta e a denominazione di origine protetta. La produzione di formaggio Asiago è oggetto di tutela D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta), deve quindi avvenire all’interno di un territorio circoscritto e solo con materia lattea proveniente da allevamenti ricadenti nel suo ambito.

La zona di produzione dell’Asiago è identificata nelle province di Vicenza, Trento e in parti confinanti con esse di quelle di Padova e Treviso, corrispondenti alla loro fascia pedemontana, inclusiva dei prati irrigui circostanti le relative, copiose risorgive.

La produzione di Asiago è tipica dell’omonimo altipiano, in cui avviene in numerosi caseifici e, nella sola estate (per il tempo di vegetazione delle erbe spontanee), nelle caratteristiche malghe di proprietà privata o, più spesso, collettiva, in virtù di usi civici antecedenti la formazione del diritto statuale italiano e da esso recepiti come fonte normativa di tipo consuetudinario.

Le malghe sull’Altopiano dei Sette Comuni sono oltre 100 e costituiscono per estensione e per numero il più importante sistema d’alpeggio dell’intero arco alpi

Il formaggio Asiago viene sostanzialmente prodotto in due tipi diversi: pressato (fresco) e d’allevo (stagionato) che a sua volta a seconda della durata della stagionatura si divide in tre categorie.

Asiago pressato: viene prodotto utilizzando latte intero. Viene lavorato a pasta semicruda e durante la prima cottura del latte a 35 °C si aggiungono fermenti specifici e caglio liquido. Ottenuta la cagliata, si procede a liberarla dal siero e a romperla a dimensione di un guscio di noce, quindi, si cuoce nuovamente a 45 °C circa. Dopo questa operazione si esegue una prima salatura a secco e si ripone la pasta in appositi stampi a pareti forate; a questo punto la forma viene pressata con un torchio, solitamente idraulico, per circa quattro ore.

Successivamente le forme vengono avvolte lateralmente con fascere di plastica, che imprimono il marchio Asiago attorno a tutta la forma e vengono messe in un locale, chiamato “frescura”, per 2-3 giorni ad asciugare. Si tolgono le fascere per eseguire l’ultima salatura mediante un bagno in salamoia per altri due giorni e infine si mettono le forme a maturare per un periodo che va dai 20 ai 40 giorni. Il formaggio finito si presenta con forma cilindrica dal diametro di 30–40 cm e l’altezza di circa 15 cm. Il peso medio di una forma è di 11–15 kg.

La crosta è sottile ed elastica; la pasta interna è morbida, burrosa, di colore bianco o leggermente paglierino e con occhiatura irregolare. Il sapore dolce e delicato, ricorda la panna e il latte appena munto. Ottimo come formaggio da tavola, si presta egregiamente anche a molteplici ricette.

Asiago d’Allevo: lavorato a pasta semicotta, con latte vaccino proveniente da due mungiture, mattutina e serale, di cui una scremata per affioramento naturale. Per questo tipo di Asiago, la cagliata viene rotta con un apposito strumento chiamato “spino” così da raggiungere la dimensione di un chicco di riso; successivamente la cagliata viene cotta altre due volte prima a 40 °C e poi a 47 °C. A questo punto il prodotto grezzo, dopo essere stato posto nelle fascere che imprimono il marchio Asiago, è salato in leggera salamoia e messo a stagionare.

La durata della stagionatura darà luogo alla denominazione di vendita:

  • Asiago mezzano, stagionato per 3-8 mesi. La pasta è compatta, anche se ancora abbastanza morbida, di colore paglierino abbastanza intenso, con occhiatura di piccola e media grandezza, molto gustoso ma ancora dolce. Ottimo formaggio da tavola, magari abbinato a delle buone pere mature.
  • Asiago vecchio, stagionato per 9-18 mesi. A pasta dura, compatta, di colore paglierino, con occhiatura media e sapore deciso, tendente al piccante.
  • Asiago stravecchio, stagionato per due anni o più. La pasta è molto dura, granulosa, di colore paglierino, con occhiatura abbastanza piccola. Il sapore è intenso, avvolgente, penetrante. Questo formaggio è un’autentica e rara “perla” per i buongustai, soprattutto se l’affinamento si protrae per oltre due anni donando al formaggio un sapore unico. Straordinario abbinato alla polenta, ai funghi e a vini rossi importanti.

Si usano localmente varie altre denominazioni, come mezzanello (dolce o piccante), che si riferisce al grado di stagionatura e ai caratteri organolettici, che diventano più marcati con il protrarsi della maturazione; vezzena, sostanzialmente un asiago d’allevo prodotto nel contiguo altopiano delle Vezzene, e altre ancora, in genere collegate al caseificio di produzione.

Il prodotto finito, ha forma cilindrica con 30–35 cm di diametro e circa 10 cm di altezza; il peso di ogni forma varia dagli otto ai 12 chilogrammi. La crosta è sottile ma dura, liscia e regolare, di colore ambrato nel mezzano e bruno nel vecchio e stravecchio. Anche la pasta interna e il sapore sono molto diversi a seconda della stagionatura e meritano quindi descrizioni separate.

La piccola Venezia

Alla scoperta di Chioggia, una città d’arte unica nel suo genere

Chioggia ad una manciata di chilometri da Venezia è una piacevole “città d’arte”. In molti la chiamano “Piccola Venezia” ma l’appellativo le sta stretto.

Sospesa tra il blu del mare e della laguna e l’azzurro del cielo è un microcosmo unico, sicuramente da esplorare. Corso del Popolo e Canal Vena sono due degli elementi più interessanti. Il terzo è il centro storico dalla particolare forma a “spina di pesce” dove la lisca dorsale è rappresentata appunto da Corso del Popolo (che i chioggiotti chiamano “La Piazza”) e dai due canali paralleli (il Vena ed il Lombardo) mentre le spine sono le calli, in tutto 74. E proprio queste ultime, per la gente di qui, non sono solo delle semplici vie ma piccoli universi di vita condivisa, dove, ancora oggi, si lavora e si gioca e soprattutto si vive. Un dedalo di viuzze che raggiunge ogni angolo della cittadina.

Ciò che la rende unica ed in grado di competere con Venezia è la sua autenticità ed il suo fascino, generato da quell’alternanza di terra ed acqua, di forme e di colori che danno vita ad un variopinto caleidoscopio di tonalità dove il rosso la fa da padrone incontrastato. Rosso delle case, rosso delle albe e dei tramonti sulla laguna, rosso delle vele. E rosso è anche il tendone che copre la pescheria al minuto collocata fra Corso del Popolo e Canal Vena, dietro Palazzo Granaio. Al mercato (aperto dal martedì alla domenica dalle 7 alle 13) si accede dal Portale a Prisca (dedicato ad una bambina del luogo scomparsa in tenera età) interamente scolpito da Amleto Sartori scultore e poeta patavino.

Al suo interno 52 postazioni di pescivendoli, qui chiamati “mògnoli”, che propongono a prezzi ottimi tutte le specie di pesce per la gioia dei clienti che ogni giorno affollano i banchi vendita. La pesca è l’oro di Chioggia. La pesca è l’attività principale di Chioggia e la maggior parte dei suoi abitanti ha a che fare con essa, direttamente o indirettamente. Qui c’è la flotta di pescherecci più importante dell’intero Adriatico.

Ne sono testimonianza le file di battelli all’ormeggio, molti dei quali con stazza ragguardevole, lungo i canali Lombardo e San Domenico, alcuni adatti per la pesca in laguna altri per quella in mare. Quotidianamente centinaia di imbarcazioni lasciano il porto e vanno a pescare e tornano la mattina dopo per scaricare il pesce fresco direttamente al mercato. Anche il Mercato ittico all’ingrosso, situato sull’Isola dei Cantieri, è uno dei più importanti d’Italia. Qui operano 59 aziende (14 commissionari che collocano il pesce nella Sala d’Aste e 45 commercianti che hanno i loro box nella parte posteriore del mercato).

Un microcosmo dove si commercializzano tutte le specie e qualità di pesce, dal fresco, al congelato per arrivare all’affumicato ed all’essiccato. Le contrattazioni si svolgono due volte al giorno dal martedì al venerdì alle 4 del mattino ed alle 3 del pomeriggio. Al lunedì solo di pomeriggio ed al sabato di mattina. Allo scoccare dell’ora, una campanella avvisa dell’inizio delle contrattazioni. L’interno della Sala d’Aste viene così pervasa da un vociare infinito. Gli acquirenti si aggirano fra le file di casse di pesce esposte e se vogliono comprare qualcosa lasciano sulla cassa che interessa un cartoncino con il proprio nome. In poco più di un’ora passano di mano quintali di pesce.

Nel caso la richiesta superi l’offerta si utilizza il cosiddetto metodo della contrattazione “all’orecchio”, un metodo che affonda le sue radici nel secolo scorso: gli acquirenti annunciano sommessamente il prezzo d’acquisto all’astatore il quale, al termine delle contrattazioni, cede la merce al miglior offerente.

Se i canali Lombardo e San Domenico ospitano le navi più grandi, lungo canal Vena trovano posto le imbarcazioni più piccole. È così facile incontrare i bragozzi le pittoresche imbarcazioni a fondo piatto, simbolo della marineria di Chioggia, con le grandi e caratteristiche vele ocra e rosso mattone. Corso del Popolo un unico gran caffè all’aperto. Il vero cuore pulsante è Corso del Popolo. Per buona parte pedonalizzato, parte da Porta Santa Maria ed arriva alla piazzetta Vigo (prospiciente al molo omonimo da cui partono i vaporetti per Venezia) impreziosita dal magnifico ponte istoriato, che richiama quello di Rialto e dalla colonna con il Leone Marciano, il vero simbolo della città che, per le sue dimensioni più contenute o, per meglio dire, meno appariscenti di quello del leone veneziano, è stato soprannominato “El Gato de Ciosa” che non ha bisogno di traduzioni. Il corso è lungo circa un chilometro, adornato sul lato di ponente da un portico lunghissimo e punteggiato da negozi, bar, pub e ristoranti sempre stracolmi di gente, tanto da spingere Curzio Malaparte a definirlo un unico gran caffè all’aperto dove si ha l’impressione che ogni giorno sia festa.

Entrando in città da Porta Santa Maria si incontra il “Refugium Peccatorum una balaustra marmorea raffigurante la Madonna col Bambino, uno degli angoli più suggestivi e visitati della cittadina lagunare, che da sempre ispira artisti e scrittori. Superata la Cattedrale all’interno della quale sono conservate le reliquie dei Santi patroni Felice e Fortunato si approda nel centro storico. All’inizio si incontra Palazzo Poli dove, per qualche anno, soggiornò Carlo Goldoni padre della commedia italiana ed autore tra l’altro delle famose “Baruffe chioggiotte”.

Bella anche la Chiesa di Sant’Andrea con la facciata barocca. Accanto la Torre del Campanile in stile romanico con il grande orologio da guinness dei primati; infatti essendo datato 1386 è l’orologio da torre più antico del mondo. Le tante chiese presenti nel centro storico testimoniano la grande religiosità dei chioggiotti. In alcune di queste, fra cui la Basilica di San Giacomo, si possono ammirare anche le “tolele”, ex voto dipinti generalmente su tavolette di legno e di cartone che raccontano miracoli e grazie ricevute dai pescatori ma anche dagli altri chioggiotti: una limpida espressione di religiosità popolare ed un modo per ringraziare pubblicamente Dio per una grazia ricevuta.

Una delle immagini sacre più venerate rimane comunque l’imponente crocefisso ligneo (è alto più di quattro metri) che colpisce per la sua espressività, conservato nella chiesa di San Domenico sulla omonima isoletta a pochi metri dal centro cittadino. Un’altra chicca è Palazzo Grassi che si raggiunge costeggiando il Canal Vena in direzione Ponte Vigo. Il Palazzo, completamente restaurato, ospita la facoltà di biologia marina dell’Università di Padova ed il bellissimo museo di zoologia adriatica “Giuseppe Olivi” (www.museoolivi.it/) che espone al pubblico circa 300 bellissimi reperti. Appena si entra si viene accolti da un gigantesco squalo elefante catturato per errore nelle acque prospicienti a Chioggia nel 2003, poi tassidermizzato ed esposto nel museo. Sottomarina bella località balneare. Uscendo dal centro di Chioggia in direzione del Mercato ittico si arriva a Sottomarina.

Le due località sono unite da un ponte, che taglia a metà la laguna del Lusenzo, e da un’isola artificiale (quella dell’Unione) ma sono divise da anni di rivalità. Da una parte i pescatori di Chioggia, dall’altra i marinanti (gli ortolani) di Sottomarina. I primi esuberanti, che sfidano da tempo immemore il mare che può essere amico ma anche un nemico mortale e per questo più portati a vivere alla giornata, i secondi invece legati alla terra ed ai ritmi delle coltivazioni soprattutto orticole e per questo metodici, tenaci e risparmiatori. Due mondi distanti anni luci, due modi di intendere ed interpretare la vita. Già le prime avvisaglie di queste diversità vi sono sul ponte presidiato da due statue, una raffigurante un pescatore chioggiotto e l’altro un ortolano di Sottomarina che sembrano guardarsi in cagnesco.

Poi l’attenzione viene catturata da Sottomarina, una lingua di terra che divide la laguna dal mare. La prima cosa che colpisce ed attrae è il litorale di sabbia dorata e finissima lungo svariati chilometri e largo decine di metri. Punteggiato da una infinità di stabilimenti balneari. Poi c’è una brezza marina costante e continua che rende piacevoli anche le calde ed afose giornate estive. La cittadina è divisa nella parte vecchia (che assomiglia molto a Chioggia) ed in quella nuova sorta in massima parte nella zona prospiciente al mare. Se si ha voglia di fare un giro conviene arrivare fino a Piazza Europa ed a Piazza Italia.

Se poi rimane tempo merita una visita anche il molo, una lunga lingua di cemento che si protende verso il mare punteggiata da capanni, chiamati trabucchi, con reti da pesca enormi pronte per essere utilizzate per l’ittiturismo. Intorno la laguna, la spiaggia, il mare ed in lontananza i cantieri del Mose.

Dove mangiare. La cucina chioggiotta ha nel pesce, ovviamente fresco, il suo elemento principale. Ci sono molti ristoranti che propongono piatti davvero gustosi. A Chioggia si consiglia una sosta al ristorante La Sgura (www.lasgura.it) in pieno centro storico che propone solo piatti a base di pesce. È gestito da 30 anni dai fratelli Carisi, Luciano (il cameriere) grande conoscitore di vini ed esperto di dolci e Tony (lo chef) che ha rielaborato in chiave moderna molte delle ricette della tradizione chioggiotta aggiungendovi un pizzico di personalità e di modernità. Da provare la zuppa di pesce e la frittura mista e, da maggio a settembre, anche un buon piatto di cozze. A Sottomarina invece si consiglia il ristorantino “La Bisatela” annesso al complesso natatorio Aquavillage (aquavillagesottomarina.it) sul Lungomare Adriatico collocato all’interno dello stabilimento balneare Nuova Marina Sirenella uno dei più grandi di Sottomarina. Il ristorantino è aperto da aprile ad ottobre e la cuoca, Paola, prepara degli ottimi piatti a base di pesce a prezzi molto contenuti. Altro ristorante sempre sul Lungomare Adriatico che propone ottime pizze senza additivi e buoni piatti a base di pesce è il Facecook. A Chioggia lungo Corso del Popolo si può fare una sosta per un aperitivo o un happy hour al Wine Bar Bellini, sempre molto frequentato da giovani, che prepara degli ottimi cicchetti (tramezzini con vari ingredienti) fra cui quelli con baccalà alla vicentina e sarde in saor. Un’altra cicchetteria che si consiglia è l’osteria Ai Coppi in calle Felice Cavallotti n. 383, una traversa di Corso del Popolo, che è aperta dalle 16 a notte fonda. Il locale è gestito da Andrea Ferro che prima di dedicarsi a questa attività ha avuto un passato artistico come bassista dei Carlito, una band in voga all’inizio degli anni duemila.

Manifestazioni. Gli eventi e le iniziative si susseguono per buona parte dell’anno. Se ne segnalano due, il Palio della Marciliana in giugno dove viene presentata la vita a Chioggia in epoca medievale e la Sagra del pesce a fine luglio per celebrare i sapori del mare e della laguna.

Da Noto a Ragusa tra arte e sapori

In questa puntata la Torre del Gusto percorre la Sicilia Orientale per giungere a Noto, la Capitale del Barocco. Distante  pochi chilometri dalla Riserva di Vendicari, la cittadina di Noto è uno dei posti da non perdere nel vostro tour della Sicilia orientale!

Noto vi colpirà per i suoi monumenti e i palazzi storici,  per l’armonia delle forme,  con una architettura urbanistica che rasenta quasi la finzione! Non a caso è stata definita “La Capitale del Barocco” e il suo centro storico è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2002.

Seguiremo due itinerari: uno artistico e l’ altro più propriamente gastronomico. Giunti nella località ciò che traspare è la cortesia nell’ accoglienza. Troviamo alloggio presso il B&B Federica.  Una simpatica struttura ricettiva incuneata in una delle traverse storiche del centro storico. Dopo una colazione abbondante iniziamo il nostro tour consapevoli cheSono tante le attrazioni che offre questa cittadina, noi ve ne indichiamo cinque, quelle che assolutamente non potete perdere!

Non sarà l’attrazione principale della città ma vogliamo indicarla per prima. Il centro storico di Noto è raggiungibile da diverse vie ma accedervi dalla Porta Reale è il modo più giusto per iniziare la vostra visita nella Capitale del Barocco! La porta reale è un impattante arco di trionfo risalente all’800, progettato e costruito in occasione della visita del Re delle Due Sicilie, Ferdinando II. Attraversandolo, davanti a voi ecco l’asse principale che attraversa l’intero centro storico: Corso Vittorio Emanuele. BENVENUTI A NOTO!

Percorrendo Corso Vittorio Emanuele, a circa 100 metri di distanza, trovate la Chiesa di Santa Chiara, una architettura barocca di altissimo pregio.

Progettata dall’architetto siracusano Rosario Gagliardi nel 1730, fu completata nel 1758 ed annessa al all’ex convento delle Suore Benedettine, oggi museo civico di Noto. L’originario portale d’ingresso di questa chiesa si trovava proprio in Corso Vittorio Emanuele e successivamente fu murato dopo un lavoro di sbancamento del terreno effettuato nel corso dell’800 che lo rese di fatto impraticabile. L’interno della chiesa, con numerose decorazioni, putti e stucchi, è considerato uno dei più importanti dell’intera Sicilia per lo stile architettonico barocco. Da non perdere poi il panorama dalla terrazza di questo edificio! Con un piccolissimo contribuito, potete visitare l’ex convento delle Clarisse con la sua meravigliosa terrazza panoramica! Meraviglioso al tramonto… Indescrivibile di Notte!

E’ proprio in questo storico corso che troviamo Caffè Sicilia, fondato nel lontano 1892 è portabandiera della pasticceria e gelateria siciliana di qualità. Incastonato nel centro storico di Noto, Caffè Sicilia è una sosta obbligata non solo per i tanti turisti in visita da queste parti ma soprattutto per gli appassionati che qui sanno di poter trovare, grazie al maestro pasticcere Corrado Assenza, perfette interpretazioni di grandi classici. Granita di mandorle, limoni, gelsi e tanti altri gusti, ma anche cannoli, cassate, biancomangiare di mandorla e faccioni di Noto, lavorati artigianalmente. Ci sono poi i gelati ai gusti classici, imperdibile il cedro, e altri innovativi, da provare quello al basilico per un’esplosione di freschezza. Non mancano i dolci per celiaci.

La Cattedrale Di San Nicolò è il principale centro di culto e storicamente il più importante della città di Noto. Un gioiello barocco del 700 soggetto nel corso dei secoli a numerosi rifacimenti e ristrutturazioni, fino ad arrivare all’attuale struttura con la costruzione della Cupola nel XIX secolo ad opera di Cassone. Rimarrete sicuramente stupiti dalla bellezza e l’imponenza di questa cattedrale, che sembra dominare l’intero centro storico di Noto!

Il Palazzo dei principi di Nicolaci, riportato recentemente agli antichi splendori, è una struttura che rappresenta nella sua interezza la ricchezza artistica, l’opulenza del centro storico Netino!

Imboccando Via Nicolaci ( una perpendicolare a Corso Vittorio Emanuele) è subito riconoscibile: una facciata caratterizzata da un portale imponente e due grandi colonne iconiche, sormontate da una balconata opulenta sorretta da mensoloni in pietra scolpita raffigurante figure grottesche…
Una delle più alte rappresentazioni dello stile Barocco nel mondo! Da visitare anche gli interni di questa residenza nobiliare,  completamente restaurati e restituiti alla comunità. Ma il modo migliore di apprezzare il centro di Noto è perdersi fra le piccole vie barocche e ammirare la struttura architettonica di questa città che sembra uscita da un set cinematografico. Sono tantissime le attrazioni che Noto vi offre, noi ve ne abbiamo indicato solo alcune! Palazzo Ducezio, la Chiesa del S.s. Salvatore, Villa D’Ercole il Teatro Vittorio Emanuele… Non avete che l’imbarazzo della scelta! Seguite il nostro consiglio… Perdetevi e trovatele per caso.. E’ modo migliore per SCOPRIRE e VIVERE la belleza di Noto!

Continuiamo il nostro giro verso Modica, una delle città più pittoresche della provincia di Ragusa e a dire il vero un po’ della Sicilia in generale. Tante sono le bellezze architettoniche da vedere a Modica che da alcuni anni l’UNESCO ha inserito Modica nella lista dei beni tutelati come Patrimonio dell’Umanità. a città sorge su di un esteso altopiano a 15 km di distanza da Ragusa ed un tempo era attraversata da ben due fiumi. Tra il 1700 ed il 1800 a Modica erano presenti ben 17 ponti che permettevano l’attraversamento dei torrenti, fatto che la fece assomigliare a Venezia. Inoltre lungo le sponde dei fiumi erano presenti vari mulini che col tempo vennero sostituiti da quelli industriali, mentre le acque vennero incanalate per rifornire la rete idrica cittadina.

Modica è un delle città più pittoresche della provincia di Ragusa e a dire il vero un po’ della Sicilia in generale. Tante sono le bellezze architettoniche da vedere a Modica che da alcuni anni l’UNESCO ha inserito Modica nella lista dei beni tutelati come Patrimonio dell’Umanità.

La città sorge su di un esteso altopiano a 15 km di distanza da Ragusa ed un tempo era attraversata da ben due fiumi. Tra il 1700 ed il 1800 a Modica erano presenti ben 17 ponti che permettevano l’attraversamento dei torrenti, fatto che la fece assomigliare a Venezia. Inoltre lungo le sponde dei fiumi erano presenti vari mulini che col tempo vennero sostituiti da quelli industriali, mentre le acque vennero incanalate per rifornire la rete idrica cittadina.

Il nucleo più antico di Modica ruota tutto intorno ai ruderi dell’antico castello, dove un groviglio di viuzze conduce fino al punto più alto della città.

Affianco all’architettura prettamente medievale si possono ammirare splendidi edifici, per lo più sacri, di squisito gusto barocco e suggestivi palazzi nobiliari, segno dell’antica ricchezza di Modica.
Inoltre addentrandosi nella parte più vecchia della città si possono notare le case addossate le une alle altre e spesso ricavate in parte sfruttando le cavità naturali della roccia.

Queste grotte furono abitate fin dall’epoca preistorica ed oggi numerose sono state letteralmente inglobate nelle costruzioni più recenti.

Modica è prettamente di stampo barocco, infatti delle architetture precedenti rimane ben poco, se non l’impianto medievale del centro più antico.

Tra gli edifici che mantengono ancora caratteristiche non barocche si può menzionare la Chiesa del Carmine, che presenta un portale gotico, le rovine della Chiesa del Sacramento e la Chiesa rupestre di San Niccolò Inferiore, addirittura risalente al XII secolo.

Una delle chiese barocche più belle di Modica è la Chiesa di San Giorgio, impreziosita da un’imponente scalinata di ben 250 scalini che conducono fino alla magnifica facciata.

All’interno la chiesa è suddivisa in 5 navate e custodisce preziose opere d’arte quali dipinti, stucchi ed il “tesoro” della chiesa, ovvero pezzi unici realizzati in materiali preziosi come l’argento.
Un’altra chiesa degna di nota è la Chiesa del Carmine con annesso convento. La struttura risale al 1500 e di quel periodo rimane ancora integro il portale gotico. L’interno, ad un’unica navata, presenta alcuni preziosi dipinti ed uno splendido altare in legno scolpito con magnifici stucchi.

Proseguendo lungo il corso si giunge nella parte bassa di Modica dove si possono visitare due chiese antiche, ma rifatte nel corso dei secoli, in stile barocco, si tratta della Chiesa di Santa Maria di Betlemme e la Chiesa di San Pietro.

Non distante da queste due chiese si trova l’ex convento dei Mercedari, oggi adibito a sede di due musei. All’interno si può visitare il Museo Civico, dove sono raccolte testimonianze addirittura del Paleolitico, ritrovate nelle grotte nei pressi di Modica, ed il Museo delle Arti e Tradizioni popolari, un autentico documento reale di vita e delle attività del passato di Modica.

Tutto il centro di Modica è ricco di bellezze architettoniche e basta passeggiare senza troppa fretta per gustarsele tutto fino in fondo.

Prendendo una stradina in salita ci si può inoltrare fino nella parte più alta di Modica, dove poter vedere la Cattedrale di San Giovanni, preceduta da un’elegante scalinata, il Palazzo Tommasi-Rossi, lo splendido portico del Palazzo Zacco-Pirrera e tanti altri edifici dalla facciate sontuose.
Da vedere a Modica è la visita al Museo Campailla, intitolato al medico-filosofo modicano che riuscì a curare tante persone dalla sifilide grazie ad inalazioni di mercurio tramite delle apposite botti oggi esposte al museo.

Molto suggestiva è anche una visita alla casa natale di Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la Letteratura. All’interno la casa presenta ancora il mobilio originale e la stessa disposizione delle cose lasciata dallo scrittore.

Ma Modica è famosa anche per il cioccolato. Una tradizione, quella del cioccolato che si tramanda dal XVI secolo e che affonda le sue radici in Messico dove 3.500 anni fa i Maya e gli Aztechi utilizzavano il cioccolato come cibo degli dei. Il cioccolato di Modica è ottenuto dalla lavorazione a freddo di ingredienti altamente selezionati, escludendo pertanto la fase del concaggio. La massa di cacao viene lavorata assieme a zucchero di canna grezzo, senza aggiunta di alcun emulsionante o additivo. Grazie a questo lento e lungo processo a freddo i cristalli di zucchero rimangono integri all’interno della massa, donando al prodotto finale una consistenza granulosa e grezza.

Una volta giunti  a Ragusa è impossibile non visitare Ragusa Ibla, il fulcro della città di Ragusa, il suo quartiere più affascinante grazie ai numerosi palazzi e chiese che vi si trovano.

Ragusa Ibla si estende su una piccola collina e dopo il terremoto del 1693 fu interamente ricostruita in stile barocco. Per iniziare una piacevole passeggiata alla scoperta di Ibla è bene partire da Piazza Pola.  Questa piazza è la principale del quartiere ed è qui che si trovano numerosi bar, locali ed uffici comunali.

È partendo da questa piazza che potremmo andare alla scoperta delle numerose ricchezze di Ibla che si susseguono una dopo l’altra affascinando i numerosi turisti. Lasciandoci la piazza alle spalle, e percorrendo via Orfanotrofio, è possibile ammirare tutta una serie di palazzi nobiliari sia in stile barocco che rinascimentale. Dopo solo pochi passi si trovano i resti della Chiesa di Sant’Agostino un’antica chiesa della quale resta un bellissimo portale in stile gotico, essenziale ed affascinante.

Dopo la chiesa si trova il Palazzo Di Quattro risalente al ‘700. Questo palazzo fu costruito per volere del Duca Arezzi di San Filippo e solo successivamente divenne proprietà della famiglia Di Quattro.
Al piano terra si trova, oggi, una bottega di un antiquario. Proseguendo sulla stessa strada c’è la Chiesa di Santa Teresa ed il relativo collegio. Continuando la passeggiata per Ragusa Ibla, e prendendo via delle Suore, si arriva in una piccola piazza, Piazza Chiaramonte dove si erge la Chiesa di San Francesco dell’Immacolata.

opo la Chiesa di San Francesco ci troviamo a percorrere la strettissima via Chiaramonte che ci conduce al retro del Palazzo Battaglia, il primo realizzato dopo il grande terremoto. La caratteristica principale di questo palazzo sta nel fatto di avere due facciate principali, la prima visibile da via Chiaramonte e la seconda percorrendo una piccola via che divide il palazzo dalla Chiesa dell’Annunziata.

La facciata rivolta verso la Chiesa dell’Annunziata si presenta con due diversi livelli separati da una fascia in pietra.

 Al pianterreno si trova un affascinante portale con ai lati due grandi finestre nello stesso stile. Al piano superiore, quello nobile, si trovano tre balconi e su quello centrale si trova un grande scudo araldico con gli stemmi delle famiglie Battaglia e Giampiccolo. La facciata che dà su via Chiaramonte è successiva e presenta un grande balcone ed un bellissimo portone d’ingresso. Al centro tra il balcone e il portone si trova una piccola finestra ovale.

Lasciando con lo sguardo il magnifico palazzo subito ci ritroviamo di fronte la Chiesa dell’Annunziata con accanto un piccolo palazzo settecentesco che dà l’impressione di appartenere alla chiesa stessa, è il Palazzo Arezzi. Ritornando in via Orfanotrofio continua la salita e ci si trova a Largo Camerina da dove è possibile prendere via Cabrera e giungere in Piazza Duomo, il cuore del barocco di Ibla. il cuore anche della cucina grazie al Ristorante del Duomo mette al bando semplicità e minimalismi per creare piatti compositi e seducenti, barocchi, ma sapientemente ancorati alla tradizione gastronomica isolana, di cui Ciccio Sultano è ormai lo chef di riferimento!

Questa piazza ha una forma irregolare ed è circondata da chiese e palazzi.

La chiesa più bella è senza dubbio quella di San Giorgio che domina l’intera pizza circondata da palazzi quali Palazzo Arezzi, caratterizzato da uno splendido arco sotto il quale passa la strada che conduce all’ex Distretto Militare. La bellezza di questa piazza è indescrivibile ed è oggi sede di numerose manifestazioni civili e religiose. Prima di abbandonare la piazza, nella parte bassa, si trova una deliziosa fontana tra i Palazzi Arezzi e Vaninata costruiti tra la fine dell’800 e l’inizio del 900.

Percorrendo la vicina via del Convento troviamo una piccola scalinata che ci porta verso la parte alta di Ibla. Una volta giunti all’estremità delle scale è possibile riconoscere i resti di un piccola piazzetta con belvedere e da qui si può percorrere via Torrenuova, e ammirare il Palazzo Capodicasa con 8 balconi sovrastati da sculture classiche, o prendere la grande scalinata che conduce alla Chiesa di Santa Maria del Gesù.

Sia la Chiesa che il connesso convento furono costruiti nel 1636 circa per volere dei frati minori.

Visto il posto scelto, la costruzione di questa chiesa fu assai complessa e di conseguenza lenta. Il convento presenta quattro livelli ognuno dei quali ospitava dei locali differenti. Al primo piano si trovavano dei magazzini in cui venivano conservati i raccolti del vicino terreno, al secondo una grande cisterna e altri magazzini, al terzo il refettorio e la cucina e al quarto le celle dei frati. Sulla parte nord del convento si trova la chiesa che nel 1963 fu molto danneggiata dal terremoto. Su via Torrenuova si trova anche la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Nei pressi di questa chiesa si trova Porta Walter che, oggi, è l’unico accesso per Ibla medievale.

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Un iniziativa per scoprire i tesori architettonici nascosti del territorio nebroideo sapientemente riprodotti su ceramica lavorata a mano dal mastro artigiano amastratino Antonio Manno.

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OMAGGIO A SAN SEBASTIANO

San Sebastiano nacque a Narbona, in Francia. Fu un legionario romano sotto Diocleziano e Massimiliano, dalla nascosta fede cristiana. Appena scoperta quest’ultima, fu condannato prima alla trafizione mediante frecce. Sopravvisse miracolosamente al supplizio, tramite intercessione divina. In seguito, fu condannato all’annegamento, stavolta mortale, poi buttato in una fossa comune.

La festività di San Sebastiano è celebrata dal mondo occidentale il 20 gennaio e dal mondo orientale il 18 dicembre..

Il culto del Santo sembra sia stato introdotto nell’anno 1063, ma la devozione a San Sebastiano si estese tra 1625 e il 1630 quando s’invocò la sua intercessione per fermare la terribile epidemia di peste che affliggeva tutta la Sicilia e che aveva mietuto tantissime vittime.

Senza entrare nei dettagli in molti paesi siciliani il santo è venerato e solenni festeggiamenti sono dedicati in suo onore. Vogliamo ripercorre attraverso delle riprese alcuni emozionanti momenti in tre paesi siciliani dove il culto del Santo è particolarmente sentito, a Palazzolo Acreide, a Mistretta ed a Acireale.

Nel mese di agosto, sono molti paesi dell’entroterra siciliano che si preparano ad eventi e manifestazioni, religiose e non, difendendole strenuamente dal difficile periodo che stiamo vivendo e che si confermano sempre un continuo spettacolo per i paesani stessi e per i turisti, sia italiani che stranieri.
A Palazzolo Acreide, piccolo comune in provincia di Siracusa di circa 9.000 abitanti, caratterizzata dallo stile barocco, situato nei Monti Iblei, dal 2002, assieme alla Val di Noto, Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.

si prepara il 10 agosto i festeggiamenti per riecheggiare il culto di san Sebastiano Martire, scelto dalla chiesa come “depulsor pestis” (allontanatore di peste) e difensore della fede; un culto che si narra anteriore al 1414, anno in cui un miracoloso Simulacro del Santo approdò a Melilli. Da quel momento in poi si diffuse in modo incredibile nell’area Iblea e successivamente in tutta la Sicilia.

A Palazzolo Acreide la devozione per questo Santoa cui è dedicata la Cappella presso l’antica chiesa dell’Annunziata, è talmente sentita che la festa, fissata per la ricorrenza del 20 gennaio, viene replicata il 10 agosto in sostituzione di quella della Madonna Odigitria, con una cornice di pubblico e un folklore senza eguali. Da un po’ di tempo a questa parte, alle secolari tradizioni che contraddistinguono la festa si sono aggiunti nuovi riti e nuove iniziative che incontrano sempre più il favore del pubblico. La festa dura dieci giorni, tutti da godere e ricchi di momenti toccanti e spettacolari.

Non di meno la festa La Festa di San Sebastiano di Mistretta, sui Monti Nebrodi, la “Festa ranni” o la “Festa di vutu”  che si svolge il 18 agosto. La pesante vara di legno massiccio e oro su cui è posta la statua del Santo è portata a piedi scalzi da 60 cittadini che hanno il posto assegnato, spesso tramandato dai padri, ed è preceduta nella sua corsa per tutto il perimetro della città, da una varetta che contiene le reliquie di San Sebastiano ed è piena di ceri, simbolo di grazie ricevute, sostenuta da giovani. Tutto il popolo corre dietro al Santo anche per le viuzze strette del centro storico dove il fercolo del Santo passa a stento e la città si riempie di gente, gli emigranti di ritorno con la famiglia e la gente dei paesi vicini attirati dallo sfarzo e dalla grandiosità della festa.

I mistrettesi che risiedono all’estero tornano quasi tutti, specialmente se sono purtanti“, cioè deputati al gravoso ma atteso compito di “stari sutta ‘a vara“, di portare in spalla la Vara. La mattina si svolge il “giro dei Miracoli“. Il Comitato si avvia insieme alla banda musicale, con in testa lo stendardo processionale che viene tenuto ben teso da due bambini che stringono i nastri laterali, compie un giro che vede un itinerario sempre diverso, secondo l’anticipata prenotazione dei fedeli che offrono gli ex-voto e la più agevole successione per il ritiro degli stessi. In genere questi sono costituiti da oggetti d’oro e da ceri, le singolari cere di grandi dimensioni appositamente prodotte a Mistretta; si forma così una processione che si reca ufficialmente in chiesa per la consegna al santo delle promesse. Il momento di attesa pomeridiano è impegnato dai giochi; fino a mezzo secolo fa era d’obbligo “la ntinna a palu“, il “palo della cuccagna” su cui occorreva salire per afferrare i premi in natura. Oggi permane la consuetudine di effettuare, davanti alla chiesa, il gioco di pignati“, che consiste nel rompere – da fermi, ad occhi bendati e con una lunga pertica – gli orcioli appesi ad un filo.

Iniziata la processione che porterà in giro per le vie del paese, la preziosa e grande macchina processionale (la Vara) trasportata a spalla che spesso percorrerà tratti di corsa, vengono sparati dei mortaretti.  La procesione fa il giro del paese per tutto il pomeriggio percorrendo tratti a gran corsa fino a giungere in serata nuovamente nella Chiesa da dove era partita. Tutta la vara è illuminata da centinaia di lucine, la varetta è illuminata dai ceri, il corso principale è illuminato a festa con mille luci: il gioco di luci che si viene a creare è suggestivo. La festa si conclude con i fuochi d’artificio e con uno spettacolo in piazza, dopo che tra la commozione generale il Santo rientra in chiesa mentre la banda comunale intona le tradizionali marce della festa. I festeggiamenti hanno luogo anche il 20 gennaio.

Ad Acireale, in provincia di Catania la spettacolarità della festa acquisisce un fascino travolgente

La festa più amata dagli acesi si svolge il 20 di gennaio di ogni anno in onore di San Sebastiano. Pur essendo uno dei molti compatroni deputati insieme alla patrona principale Santa Venera ad impetrare la protezione divina sulla città, i festeg-giamenti tributati al Santo, espressione di una devozione popolare lunga oltre 450 anni ancora viva e sentita, sono indub-biamente l’evento religioso cittadino più atteso.

Le prime luci mattutine non hanno ancora pienamente illuminato la splendida facciata settecentesca della grande basilica, illustre esempio di barocco siciliano, che la piazza antistante si popola di divoti (devoti) ansiosi di correre verso la cappella dove il Santo è rimasto custodito e celato alla loro vista per tutto l’anno.

Momenti strettamente religiosi celebrati dal decano della Basilica hanno interessato i fedeli lungo le settimane precedenti la festa, mentre le Reliquie del Santo sono state accompagnate in forme rigorosamente religiose nei luoghi di dolore e di memoria della città. Messe, funzioni, meditazioni rafforzano una catechesi che volutamente spoglia di sovrastrutture folcloristiche fa comprendere ad attenti fedeli e motivati divoti il profondo senso religioso dell’evento.

Il lungo anno di privazione, offerto come pratica di espiazione penitenziale da una folla di fedeli ormai impazienti di rivedere il loro beniamino si dissolve in un urlo di incontenibile gioia all’apertura della cappella e alla svelata della statua del Santo raffigurato nelle sembianze di un biondo riccioluto fanciullo in atto di ricevere il martirio delle frecce.

‘U rizzareddu (il ricciolino) come affettuosamente viene chiamato il Santo, attorniato dai mille luccichii del settecentesco fercolo e con a lato i due paffuti angioletti che con lieve sforzo sorreggono i bracci argentei dove sono custodite le Reliquie, viene a forza posto con movimenti lenti resi quasi impossibili dalla calca, sopra il pesantissimo baiardo: un affusto di legno munito di quattro ruote retrattili ma fisse. Al grido di: cu tuttu ‘u cori: viva Sammastianu! (con tutto il cuore: viva San Sebastiano!) una quarantina di divoti si tramandano di padre in figlio l’ambito compito di trasportare il baiardo sollevandolo a viva forza ad ogni curva, sovente anche di corsa, lungo un percorso che si snoda per tutta la città.

Attorno a loro altri divoti: donne ed uomini, giovani e vecchi, talvolta anche bambini in braccio ai loro genitori, tutti, come vuole la tradizione, senza scarpe, con i piedi coperti da semplici calze, vestiti della tradizionale divisa con la testa coperta da un fazzoletto, accompagnano insieme a una moltitudine di semplici fedeli il Santo per tutto il giorno.

Dopo la spettacolare manovra di uscita dalla Basilica, altre vertiginose corse riempiono la giornata in mezzo a continui scampanii e fuochi d’artificio. A notte inoltrata e dopo aver traversato vie e piazze antiche nelle quali una tradizione lunga secoli di storia ha creato momenti di toccante religiosità, la processione si conclude con un suggestivo rientro in basilica.

È un popolo di divoti stanchi ma orgogliosi di aver offerto per tutto il giorno fatica e pericoli al loro Santo, perpetuando in tal modo una tradizione ancora genuina nella quale il folclore ammanta ma non cancella una religiosità semplice ed istintiva, ad accompagnare compatti sino alla cappella il loro beniamino preparandosi a festeggiarlo di nuovo, stavolta all’interno della Basilica, otto giorni dopo per poi affrontare, aspettando pazientemente la successiva festa, un altro lungo anno di attesa e privazione.

Il culto di San Sebastiano, la cui introduzione in Sicilia sembra sia avvenuta verso il 1063 da parte dei Lombardi al seguito di Ruggero, ha una vasta diffusione nell’isola anche perchè si riteneva che l’intercessione del Santo scampato al martirio delle frecce proteggesse dalla peste rappresentata nell’iconografia medievale da dardi scagliati da Dio contro i peccatori.

Ad Acireale è un decreto di approvazione dei festeggiamenti emesso l’11 settembre del 1571 dal vescovo Faraone, a documentarci inoppugnabilmente l’esistenza di una festa già viva e vitale la cui nascita è possibile ascrivere ai primi decenni del secolo e che progressivamente trova intensità in un culto che si rafforza ad ogni episodio della lunga sequela di epidemie di peste.

Lungo tutto il Cinquecento, festa e processione permangono in una dimensione contadina e spontanea per poi nel Seicento, abbandonata la vecchia chiesetta oggi dedicata a Sant’Antonio per trasferirsi in una nuova, capiente e più centrale chiesa edificata nell’attuale collocazione, assumere una dimensione più urbana ed articolata.

Sono comunque Controriforma, Riforma e Barocco che si occupano di codificare festa e processione imprimendo un rigido ordine gerarchico per “corpi” e “ordini” sociali caratteristico della mentalità del Seicento.Sono così, rigide gerarchie, ordini e precedenze nei riti e nelle processioni a costruire la festa seicentesca non mancando sovente di accendere furibonde “guerre di Santi” tra le confraternite di San Sebastiano cui si opponevano, talvolta anche fisicamente, i confrati concorrenti di San Pietro e Paolo. Scontri che, in effetti, sotto le poco consistenti motivazioni di precedenze e formali preminenze, nascondevano lotte politiche e motivazioni sociali ed economiche ben più profonde e significative.

Tra il Sei ed il Settecento, il radicamento del culto di San Sebastiano negli strati popolani della città, permise la persistenza della festa a livello religioso e sociale, mentre sfumavano sperdendosi progressivamente i festeggiamenti pubblici dedicati ai Santi Pietro e Paolo.

Tra la seconda metà del Seicento e lungo tutto il Sette-Ottocento è comunque Santa Venera, attorno alla cui festa ruotavano interessi economici rilevanti per la concomitante fiera franca che permetteva il commercio della seta in regime di esenzione di tasse ed imposte, a prendere il sopravvento e diventare patrona principale della città e Santa di riferimento per una ricca borghesia che nel frattempo si nobilitava comprando il blasone. Tuttavia, alla “Santa dei nobili” appunto Santa Venera, si affiancava tenacemente un San Sebastiano il cui culto trovava radicamento e veniva tramandato in un ampio strato di fedeli di prevalente origine popolana.

Ed è tale saldo e profondo radicamento di così lunga durata, in un quadro cittadino di generale affievolimento delle altre feste – Santa Venera compresa -, che assicura ancora oggi, nel terzo millennio, la permanenza della festa di San Sebastiano in una forma che pur conservando attentamente la tradizione non resta tuttavia totalmente impermeabile ai mutamenti.

Attorno al culto ed ai festeggiamenti di San Sebastiano sono nate e prosperate espressioni architettoniche, artistiche, sociali e culturali di notevole rilievo. Basti pensare alla imponente Basilica splendido esempio di Barocco siciliano, edificata ai primi del Seicento e ricostruita dopo il terremoto del 1693 con un prospetto dove otto statue di santi, dieci testine di angioli, trenta mascheroni apotropaici fregi e motivi floreali unitamente ad un coro sereno e gioioso di quattordici puttini che reggono ghirlande di frutta e di fiori, compongono uno straordinario merletto di pietra.

All’interno della Basilica il ciclo pittorico di Paolo Vasta, originariamente pensato per far conoscere con l’immediatezza della raffigurazione a fedeli spesso incapaci di leggere: la vita, i miracoli, le opere del Santo, si mostra didascalico, quasi teatrale, stimolando e coinvolgendo osservatori trascinati ancor oggi nella dimensione di raffigurazioni che si fanno realtà.

Gli innumerevoli preziosi paramenti sacri, pregevoli esempi di un artigianato che sulla seta e sui damaschi sapeva proiettare estro ed originalità, insieme con una miriade di oggetti sacri di materiale umile come il legno, il ferro, il marmo ma anche di prezioso oro ed argento fanno da sfavillante cornice ad un settecentesco fercolo rivestito di fine argento cesellato all’interno del quale, sotto le sembianze di un etereo fanciullo ancora oggi fa bella mostra la statua del Santo che recenti saggi attraverso i rifacimenti del tempo hanno identificato come l’originaria del Cinquecento.

Una basilica, luogo di preghiera, di culto, ma anche sede di confraternite ed associazioni laiche, purtroppo oggi quasi del tutto scomparse, che con la socialità, con la solidarietà, col mutuo soccorso univano e davano rassicurante protezione a numerosi fedeli ai quali assicuravano anche l’estrema dimora vicino al venerato Santo.

Una festa ed un culto profondamente radicate, fortificati da secoli di tradizione, che ancora oggi si mantengono saldi e non corrono rischi imminenti di sparizione. Tuttavia in mezzo ad un “consumismo” ed ad una “globalizzazione” che fagocitano velocemente e con estrema voracità valori ed espressioni locali, il rischio di svuotare di contenuti un evento pur sempre religioso facendolo scadere al ruolo di manifestazione vuotamente mediatica e folcloristica esiste ed è concreto.

Per evitare tali rischi è indispensabile rivisitare costantemente contenuti ed espressioni dell’evento mantenendoli entro i caratteri originari adoperando tuttavia per la loro diffusione aggiornati linguaggi e modalità comunicative in modo da permettere al culto del Santo e alla sua festa di proiettarsi ancora vivi e sentiti nel terzo millennio.

 

La gustosa estate palermitana

 

Parlare di  estate palermitana significa entrare nel vivo della tradizione gastronomica di questa città e il momento migliore è certamente luglio, il mese cioè in cui tutti i palermitani devoti festeggiano la loro patrona Santa Rosalia, un’importante festa popolare nota come il “festino” poiché esso è considerato “a granni festa”, la grande festa, si svolge per cinque giorni, dal 10 al 15 luglio, e rappresenta il momento più alto dell’espressione popolare delle tradizioni e del folklore palermitano.

Lo spazio urbano, nei secoli passati, si trasformava in una grande ribalta ove si succedevano in una mescolanza gioiosa, cerimonie pubbliche sia religiose sia civili e gare di decorazioni e d’illuminazione tra i vari quartieri.

“A Santuzza miraculusa” è riferita a quell’anno maledetto, il 1624, in cui la morte nera falciava la popolazione di Palermo. Nessun rimedio umano era giovato ad arrestare il morbo, e le quattro Sante cui in quel periodo era ufficialmente affidata la protezione della città (Agata, Cristina, Oliva e Ninfa) non riuscivano a contenere il malefico male, né tantomeno i Santi Sebastiano e Rocco, ritenuti specialisti in guarigioni da peste bubbonica.

La leggenda vuole che di Rosalia non si conoscesse nulla, tranne la sua origine, poiché essa visse in onore di santità, sfuggendo alla vita agiata della corte di Re Ruggero. Figlia di Sinibaldo di Quisquina e morta in data incerta in una grotta del Montepellegrino, successivamente trasformata in santuario, apparve ad un cacciatore, tale Vincenzo Bonello, diversi secoli dopo, gli indicò il luogo in cui giacevano le sue spoglie e gli disse di riferire all’Arcivescovo di Palermo di mettere insieme le sacre reliquie in un sacco e di portarle in processione per le strade della città.

’Arcivescovo Giannettino Doria, il 15 luglio del 1624, insieme a tutto il clero e con la partecipazione del Senato e di alcuni cittadini eletti, portò le reliquie in processione, e avvenne che, al loro passaggio, il male regredisse. Palermo in breve fu liberata dalla peste e, in segno di riconoscenza per tanto beneficio, il Senato palermitano si votò alla nuova Santa e decretò che in suo onore, ogni anno, i giorni della liberazione fossero ricordati come il trionfo della Santa, nel frattempo divenuta protettrice della città.

Daallora fino ad oggi il Festino si ripitepe interrottamente ogni anno sempre magnifico e sempre diverso.

In questi giorni per le vie più popolari di Palermo, ed in particolar modo al Foro Italico, luogo dove si conclude il festino con la sfilata del carro della Patrona, i vari odori del cibo si mischiano nell’aria, nelle numerose bancarelle allestite per la festa, infatti, si trovano le specialità della nostra Palermo.

Dalla bancarella del “siminzaro” (venditore di semi di zucca, mandorle, nocciole, lupini….) decorata con le pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine di Santa Rosalia al centro, alla bancarella del “turrunaru” (venditore di torrone) che prepara a vista la cubaita, tagliandola a pezzi con un grosso coltello e che espone ad arte i vari tipi di torrone, fra cui il tradizionale “gelato di campagna“. Passando per le bancarelle del “panellaro“, del venditore del “pane ca’ meusa“, dal tavolo del “purparu” dove oltre al polpo si possono consumare anche cozze e ricci; e poi lo “sfincionaro“, il venditore di fichi d’india e quello che vende pannocchie bollite (“pullanca“). Insomma si può trovare di tutto, non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma per il palermitano doc non è Festino se gli vengono a mancare “u’ muluni” e i “babbaluci.

I “babbaluci” non sono altro che piccole lumache terrestri con il guscio bianco a volte striato di un colore bruno chiaro.

Si raccolgono sugli steli rinsecchiti di molte piante erbacee o in cardi spinosi dove si abbarbicano a grappoli.
Il periodo in cui sono più buone da mangiare è quello che va dal 13 giugno fino al mese di luglio.

L’origine della parola babbaluci deriva probabilmente dall’arabo “babush” termine che indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano si chiamano “babusce”. Alcuni invece ne indicano la provenienza dal greco “boubalàkion”, che significa bufalo, a cui veniva paragonato il “babbalucio” per via delle corna.
Del loro consumo ci arrivano notizie che risalgono agli antichi Greci e Romani che già fin dal 49 a.C. inventarono delle tecniche per allevarle. Utilizzate anche dalla medicina popolare siciliana, venivano usate per guarire casi di esaurimento nervoso, contro l’ eccessiva magrezza e per curare i mali del fegato, ma anche per le congiuntiviti dell’occhio e per le infezioni della pelle, dove venivano applicate dopo essere state schiacciate e mischiate con del lievito, accompagnando la medicazione con apposite litanie, “a razioni“.

Insomma dei “babbaluci” si è sempre fatto un largo consumo e utilizzo, ed è  forse a causa della loro ostinazione determinata, pensate che riesce a percorrere quattro metri al minuto, che è nata persino una canzone popolare dedicata a questi gasteropodi: “Viri chi danno ca fannu i babbaluci ca cu li corna ammuttanu i balati, si unn’era lestu a dàrici na vuci, viri chi dannu ca fannu i babbaluci”…

Dal punto di vista organolettico, i babbaluci hanno carni tenere, con pochi grassi e con proteine simili a quelle del pesce, a renderli poco leggeri è l’aglio soffritto nell’olio d’oliva, “l’agghia ‘ngranciata”

Caratteristico poi è il modo in cui si mangiano queste “ghiottonerie cornute”: alcuni utilizzano gli stuzzicadenti per tirare fuori il mollusco, ma il vero palermitano ama mangiarle “cu scrusciu” (il rumore del mollusco risucchiato), infatti per agevolare l’uscita veloce della lumaca dal guscio, si pratica un piccolo foro, con il dente canino, sulla chiocciola nella parte opposta all’apertura del nicchio testaceo, in modo da creare un canale d’aria da cui il mollusco sarà risucchiato. In fondo il vero piacere di mangiare i babbaluci è questo, e non saziano mai, proprio come recita l’antico detto: “ziti a vasari e babbaluci a sucari nun ponnu mai saziari”.

Nel periodo in cui si svolge a Palermo il tradizionale Festino, vengono consumati quintali di “babbaluci”, e grosse quantità di “muluna”, per quello che viene definito lo “schiticchio”.

Ma, come dessert o come passatempo nell’attesa di assistere ai fantasmagorici giochi d’artificio, si indugia a sgranocchiare “calia e simenza”, o si gusta il tradizionalegelato di campagna” o “giardinetto“.
In realtà, dal punto di vista organolettico, assomiglia molto al gelato ma non lo è poiché il suo ingrediente principale è lo zucchero, che però ha la caratteristica di sciogliersi facilmente in bocca.

Come il gelato, appunto. Da qui, il nome.

Sorta di torrone tenero d’origine araba, oltre allo zucchero che ne è l’ingrediente principale in assoluto e che veniva importato, ricavato dalla cannamele, altri ingredienti “essenziali” sono: il pistacchio, largamente impiegato, oltre che per il gusto, per il suo verde scintillante che risalta autorevolmente fra gli altri due colori principali, il bianco e il rosso, ricavati da coloranti vegetali.

I tre colori riproducono il tricolore italiano.

Le mandorle, la cannella e la frutta candita, frutti peculiari della terra di Sicilia, vennero aggiunti a gratificazione della cultura magrebina.

Manipolato, come spesso accadeva per i dolciumi, all’interno dei monasteri, si diffuse nel 1860 per acclamare l’arrivo di Garibaldi ed esaltare l’avvenuta annessione all’Italia. I palermitani, con il tricolore, ne furono validi testimoni, e da allora il gelato di campagna è sempre presente in tutte le feste popolari.

E’ il pezzo forte di tutte le bancarelle dei “turrunara”. Ammicca dai ripiani tra le altre golosità e, ulteriore curiosità, può essere preparato in forma quadrata o a forma di mezzaluna; quest’ultima forma si fa risalire ad un simbolismo magico introdotto dalla cultura araba che venerava la natura ed in particolare la luna crescente.

Per i palermitani questo dolce è il simbolo magnificatore di un’occasione quale la festa, il suo consumo scandisce la ricorrenza di calendario. Le preparazioni più recenti, sfuggendo alle rigide tradizioni, propongono prodotti identici dal punto di vista calorico, ma molto più elaborati esteticamente. Cambiano perciò le forme, i colori, gli ingredienti di contorno.

Ma, nonostante il passare degli anni e le inevitabili “contaminazioni” (è successo anche al panettone), la tradizione resiste ad il gelato di campagna si colloca nel firmamento dei dolciumi come un classico dell’antica arte pasticciera palermitana.

Altro protagonista dell’ estate palermitana è poi il gelo di mellone.

l mellone, versione italianizzata del nome dialettale “muluni”, non è altro che  l’anguria o cocomero, frutto abbondantemente coltivato in Sicilia e che raggiunge la sua piena maturazione nel periodo estivo. Dolce e succosa, l’anguria, è un frutto dalle numerose proprietà e dal ridotto apporto calorico. Contrariamente a quanto si pensa, infatti, il suo sapore dolce non deriva da un elevato contenuto di zuccheri, che anzi è una piccola percentuale, ma dalla presenza di sostanze aromatiche particolari. Questo, insieme alla ricchezza di vitamine A e B e di potassio, lo rendono adatto da consumare anche durante le diete ipocaloriche. Perciò non c’è niente di meglio in estate, quando si sente la necessità di un pò di freschezza o per reintegrare liquidi, che con le temperature torride dei mesi più caldi, inevitabilmente vengono espulsi. Del resto l’anguria ha come caratteristica quella di essere il primo frutto al mondo per contenuto d’acqua, pensate che la sua percentuale è pari a più del 95% .

A Palermo trovare chi vende le angurie è molto facile, addossati ai marciapiedi, disseminati in vari “punti strategici” della città, infatti, si possono vedere camion o moto ape con la sponda posteriore aperta da cui fanno bella mostra piramidi di angurie.

Il venditore di “muluna”  è detto “u mulunaru” riconoscitore esperto del frutto, che ne capisce la maturazione dando uno schiaffo alla corteccia e ascoltandone il rumore, ne garantisce la bontà al cliente.

Per il palermitano l’anguria è forse il frutto più amato, per il sapore dolce e per i suoi colori brillanti, ed è con gusto e soddisfazione che addenta la grossa e invitante mezzaluna, e poco importa se il succo gli bagna le mani e giù fino ai gomiti, o se quasi si lava la faccia, per il palermitano doc, questo è un rito a cui non può rinunciare… infondo è proprio vero che questo frutto ha la caratteristica di provvedere a “manciari, viviri e lavarisi a facci “

Ma tornando alla ricetta del “gelo di mellone”, c’è da dire innanzi tutto che è un dolce squisito ma non è un gelato, contrariamente a quanto può far pensare il suo nome, anche se ce lo ricorda per il suo aspetto, la sua dolcezza e la sensazione di freschezza che sa donare al palato.

C’è chi sostiene che le origini di questo dolce siano albanesi, portato dagli Arberesch che si stanziarono in Sicilia dove ancora oggi risiedono, mantenendo usi e costumi della loro terra natia. C’è invece chi è più propenso a credere che questa golosità risalga al tempo della dominazione araba in Sicilia, per gli aromi del cioccolato, dei pistacchi, del gelsomino, della cannella….

 

 

 

 

BIOLOGICO, I PRO E I CONTRO

Verena Seufert, autrice e ricercatrice dell’Institute for Resources, Environment and Sustainability (Ires)

di Placido Salamone

Giorno fa ho trovato interessante un articolo della nota giornalista  Marta  Musso dal titolo “Agricoltura delle meraviglie: luci ed ombre del cibo bio” Parliamo sempre di biologico pensando di fare una scelta di acquisto eticamente corretta e salutista. Pensiamo al bio come proposta alternativa più ecologica all’agricoltura convenzionale e anche per questo motivo è il settore alimentare in più rapida crescita sia nel Nord America che in Europa. Ma una disamina di questo modus operandi non sempre è fatta correttamente e quindi arriva il momento di parlare con cognizione di causa. Per fare ciò serve in team di veri esperti come appunto ricercatori della University of British Columbia che hanno indagato i vantaggi e svantaggi dell’agricoltura biologica per la salute e per l’ambiente.

Come ci spiega Verena Seufert, autrice e ricercatrice dell’Institute for Resources, Environment and Sustainability (Ires) e Navin Ramankutty. “Il biologico è spesso proposto come la soluzione ai problemi ambientali e alimentari, ma abbiamo scoperto che i costi e i benefici variano fortemente a seconda del contesto in cui ci si trova”.

Attraverso uno studio sistematico condotto su 17 criteri diversi tra cui la resa del raccolto, l’impatto sui cambiamenti climatici, il sostentamento degli agricoltori e la salute dei consumatori, Seufert è giunta alla conclusione che se da una parte l’agricoltura biologica promuove la biodiversità locale, un più alto valore nutrizionale dei prodotti e una maggiore redditività per gli agricoltori, ha tuttavia degli svantaggi, come prezzi ben più alti e bassi rendimenti rispetto all’agricoltura tradizionale.

Vi domanderete certamente cosa ha di innovativo questo studio di ricerca. Certamente quello di contestualizzare i pro e contro della coltivazione biologica. L’esempio viene fatto mettendo a confronto aree sviluppate con aree in via di sviluppo, partendo dall’ utilizzo di pesticidi sintetici e i benefici nutrizionali del biologico.

Navil Ramankutty – Professor in Global Food Security and Sustainability, Liu Institute for Global Issues and IRES

Come spiegano i due autori, in paesi sviluppati dove sono presenti leggi sui pesticidi molto rigorose e il regime alimentare è già ricco di micronutrienti, i benefici per la salute di scegliere prodotti organici potrebbero essere del tutto marginali. Paradossalmente, la situazione è differente nei paesi più poveri. “In un paese in via di sviluppo – spiega Ramankutty – dove l’uso dei pesticidi non viene controllato e le persone hanno carenze alimentari, riteniamo che i benefici per la salute del consumatore e dell’agricoltore possano essere molto più alti”.
Un altro importante criterio per misurare la sostenibilità dei sistemi agricoli è il rendimento di un raccolto. Finora, la maggior parte degli studi avevano messo a confronto i costi e i benefici delle aziende biologiche e di quelle convenzionali, senza però tener conto delle differenze nel rendimento di differenti colture e tecniche di coltivazione. In media, sottolineano i ricercatori, il rendimento di una coltivazione biologica è tra il 19 e il 25 percento inferiore a quello di una coltivazione convenzionale. Ma il gap può ridursi fino al 5-9 percento, o aumentare fino quasi al 40 percento, prendendo in considerazione prodotti diversi e differenti tecniche di rotazione delle colture. La morale, spiegano i due autori dello studio, è che il bio non è sempre meglio, e un’adozione indiscriminata di queste tecniche di coltivazione avrebbe gravi ripercussioni sull’ambiente, soprattutto in termini di consumo del suolo. “La coltivazione biologica può essere considerata migliore in termini di biodiversità, ma gli agricoltori avranno bisogno di più terra da coltivare per ottenere la stessa quantità di cibo”, spiega Seufert. “Ed è bene ricordare che la conversione del suolo per l’agricoltura è la causa principale della perdita degli habitat e del cambiamento climatico”.

La sfida del domani non quindi solo quello di migliorare qualitativamente la nostra vita e quella dei nostri figli ma di impiegare mezzi di ricerca per accrescere quantitativamente le produzioni senza lo sfruttamento di più terra. Una  bella sfida!!